LA FANTABIOLOGIA: DAI MONDI PERDUTI A PROMETHEUS 03


di Claudio Cordella

Parte Terza: Da Alien a Prometheus, conclusione del viaggio.

Sin qui abbiamo cercato di rendere conto, seppure in modo sommario, il modo in cui le scienze naturali, spesso in associazione con l’archeologia, abbia eccitato la fantasia di numerosi artisti nell’arco di un secolo e mezzo. Un ottimo esempio a questo riguardo ci viene offerto dal lovecraftiano Le montagne della follia, in tale opera non solo i Grandi Antichi ci vengono descritti dal punto di vista biologico ma persino la loro storia, così come la loro peculiare architettura (concepita per esseri non-umani), assieme al loro modo di vivere, sono resi con grande accuratezza. L’impressione è di essere difronte alla sceneggiatura di un documentario, o meglio a un mockumentary (falso documentario), studiato in ogni minimo dettaglio; attingendo a tal scopo sia dai saperi storici (in primis l’archeologia) sia da quelli tecno-scientifici.

Quando Sir Ridley Scott, classe 1937, regala al mondo nel 1979 il suo Alien offre al suo pubblico una sua personale versione del cosmic horror lovecraftiano. L’influenza del “solitario di Providence”, è bene specificarlo subito, in questa pellicola è solo indiretta. Dal punto di vista della trama, diversi elementi fanno pensare sia ad espliciti legami con il film Il mostro dello spazio (1965) di Mario Bava, sia con una novella appartenente al ciclo della Space Beagle (The Voyage of the Space Beagle, Crociera nell’infinito) di Alfred Elton Van Vogt (1912 – 2000), incentrata sulle peregrinazioni di un’astronave d’esplorazione. Il Beagle era il brigantino che trasportò Darwin in giro per il mondo, van Vogt prende spunto da quello storico viaggio per raccontarci delle peregrinazioni di alcuni scienziati che di volta in volta durante le tappe della loro odissea cosmica devono misurarsi con alieni dalla formidabile biologia, letali, feroci e pericolosissimi.

Lo Space Jockey di Alien. Illustrazione di H. R. Giger. Copyright degli aventi diritto.

Visivamente le fonti iconografiche di Alien vanno tutte da rintracciare nel Vecchio Continente, nelle tavole della rivista francese di fumetti Métal Hurlant, una testata innovativa e dirompente creata da Jean Giraud (in arte Moebius, 1938 – 2012), Philippe Druillet, Jean-Pierre Dionnet e Bernard Farkas, oltre che nella sconvolgente arte biomeccanica dello svizzero Hans Ruedi Giger (meglio noto come H. R. Giger). L’idea di Scott è quella di far sposare le visioni degli autori di Métal Hurlant con le bizzarre mostruosità di Giger, condendo il tutto con la tradizione della fantascienza pulp (van Vogt) e cinematografica (Bava). Il cocktail funziona, le molteplici metamorfosi del terribile xenomorfo protagonista sono al tempo stesso scioccanti quanto verosimili, ispirate come sono al ciclo vitale di certi insetti. Certo, alcune trovate lasciano un po’ perplessi. L’idea dell’acido molecolare al posto del sangue è efficace sul piano registico, perché in tal modo uno xenomorfo ferito e sanguinante risulta essere comunque pericoloso, ma lascia diversi dubbi su come possa funzionare un sistema cardiocircolatorio che pompi una simile sostanza nel corpo di un organismo. A onor del vero Alan Dean Foster, autore della relativa novelization del capolavoro di Scott, ipotizza nel suo romanzo, basato sulla sceneggiatura del film, che l’acido molecolare sia una sorta di liquido protettivo : “Non siamo sicuri che sia il suo sangue. […] Potrebbe essere una componente di un sistema circolatorio separato, intesa a lubrificare l’interno della creatura. O potrebbe far parte di uno strato protettivo interno, una specie di endotelio liquido di difesa. Potrebbe non essere che il corrispettivo di quella creatura del nostro fluido linfatico”. ALAN DEAN FOSTER, Alien, 1979; tr. it. Alien, Bompiani, Milano 1989, pp. 97 – 98.

Avrei pure altri dubbi, in particolare riguardo al passaggio dal penultimo stadio di crescita a quello finale di quest’extraterrestre. Lo sfortunato equipaggio dell’astronave Nostromo, un semplice rimorchiatore, non un potente incrociatore militare o una navetta d’esplorazione scientifica, scopre delle uova nella stiva di uno stranissimo vascello alieno dalle linee tecno-organiche a forma di “U”. Una delle uova da segno di non essere un mero fossile, diventa traslucida e mostra un qualcosa di vivente che riposa dentro il suo guscio: “La cosa aveva essenzialmente la forma di una mano con molte dita, lunghe e ossute, ripiegate nel palmo. Assomigliava molto alla mano di uno scheletro, a parte le dita in più. Dal centro del palmo si estendeva qualcosa, un corto tubo di qualche genere. Sotto la base della mano era avvolta una coda muscolosa”. FOSTER, Alien, pp. 77 – 78. L’ovoide si schiude e uno strano essere, simile a un ragno con una robusta coda (facehugger, “aggrappafaccia”), fonde la visiera del casco di un’astronauta e a fissarsi sul volto dello sventurato. Si tratta di una delle scene più famose di Alien, un primo pugno nello stomaco che Scott sferra al suo pubblico, lasciando gli spettatori letteralmente inchiodati alle loro poltrone. Anche Foster, nella sua trasposizione cartacea ci offre una descrizione dotata di un notevole impatto: “L’ovoide esplose. Spinto all’esterno dall’improvviso rilasciamento dell’energia contenuta nella coda avvolta, la mano si aprì e balzò verso di lui. Kane sollevò un braccio per proteggersi, troppo tardi. La cosa si fissò alla sua visiera. Poté vedere orribilmente da vicino il tubo che oscillava al centro del palmo che colpiva la superficie del vetro, a pochi centimetri dal suo naso. Qualcosa cominciò a sfrigolare e il materiale della visiera cominciò a liquefarsi”. FOSTER, Alien, p. 78.

Per lo sventurato Kane, e per tutti i suoi compagni, è l’inizio di un incubo. Il facehugger riduce l’uomo in uno stato di coma, inserendo al tempo stesso all’interno del suo petto un embrione. Una volta distaccatosi l’astronauta si sveglia ma al tempo stesso l’alieno che si è insinuato nel suo corpo completa il suo periodo di gestazione e nasce, sfondando il torace della sua vittima. Questo stadio vitale prende il nome di chestburster (“spaccapetto”), simile a un verme dentato o a un serpente. Il momento in cui quest’ultimo esce dalla gabbia toracica di Kane (John Hurt), costituisce una delle sequenze più “forti” dell’intera pellicola, entrata a buon diritto da tempo nella storia della settima arte. Insomma, un autentico pezzo d’antologia che colpisce per la sua forza dirompente e sanguinaria. La metamorfosi finale dello xenomorfo è rappresenta dalla crescita dello “spaccapetto” che finisce con il diventare, dall’esserino che era prima, un gigante umanoide caratterizzato da una temibile testa corazzata con una possente mascella multipla, tipo matriosca, con una lingua dentata. Nella sua forma adulta l’alieno neutralizza l’intero equipaggio della Nostromo, solo Ellen Ripley (Sigourney Weaver), l’unica sopravvissuta, riesce in extremis ad aver ragione di lui scaraventandolo nello spazio e carbonizzandolo con i propulsori della navetta di salvataggio su cui si è imbarcata. Dal punto di biologico tutto sembra esser logico e coerente, se non che non riesce a capire come abbia fatto a crescere così tanto il chestburster sino a diventare più grande di un uomo. L’embrione cresce nutrendosi attraverso il corpo di Kane, infatti il poveraccio mangia a quattro palmenti durante quello che sarà ultimo pasto, dunque pur essendone inconsapevole sta mangiando per due. Ma il chestbuster neonato? Di che cosa si ciba? Qui è lo spettatore, se vuole soddisfare la propria curiosità, che deve fare delle ipotesi senza sperare che esse possano esser confermate o meno. Passano diverse ora tra la nascita dello “spaccapetto”, con il conseguente decesso del suo ospite, al momento della comparsa dell’ancora più minaccioso stadio finale.

L’astronave abbandonata che si vede in Alien. Copyright degli aventi diritto.

La Nostromo è una grande astronave, volendo si può ipotizzare che la creatura, mentre l’equipaggio è sotto shock e indeciso su cosa fare, l’alieno abbia trovato qualcosa da divorare in modo da poter crescere. Di sicuro non ha potuto metabolizzare l’aria per creare dei tessuti viventi! A parte simili osservazioni, marginali in fondo, gli xenomorfi con il loro peculiare ciclo biologico e la loro meccanica dedizione monomaniaca ai loro scopi (nutrirsi e riprodursi), indifferenti agli esseri umani che considerano come dei pupazzi di carne (da divorare o inseminare con i loro embrioni), credo che sarebbero piaciuti a Lovecraft. Ritengo che seppure il “solitario di Providence”, scrittore dalla personalità conservatrice, non priva di tendenze xenofobe, non avrebbe apprezzato i messaggi di carattere progressista inseriti nella pellicola di Scott, avrebbe senz’altro compreso il peculiare cosmic horror espresso dal regista. Lo sceneggiatore Dan O’Bannon (1946 – 2009) fa in modo che il design dello xenomorfo, realizzato materialmente sul set dall’esperto in effetti speciali Carlo Rambaldi, sia opera di H. R. Giger. Un artista di cui ha ammirato il book fotografico Necronomicon, opera che prende il nome dal celebre libro fittizio di Lovecraft e che omaggia la cupa fantasia di quest’autore. Con uno sguardo attento alla modernità, in Alien abbiamo una spietata Compagnia senza volto interessata a studiare l’alieno per la sua divisione armi biologiche, che non esita a inviare un androide assassino a bordo sotto mentite spoglie, che ci riconduce direttamente a una posizione critica nei confronti del capitalismo rappresentato dalle corporation. La stessa Ripley, divenuta nel corso dei decenni una delle eroine più famose di tutta la storia della sci-fi, rappresenta alla perfezione quel tipo di donna forte, sicura di sé e determinata, che si distanziava anni-luce dai modelli della bella indifesa, capace solo di farsi salvare, del passato.

Il guaio, arriviamo ora al punto dolente, non è che Alien abbia prodotto tutta una serie di sequel e poi di crossover (con la saga di Predator), la cui qualità oscilla in genere dal mediocre al pessimo (con l’unica eccezione di Aliens di James Cameron), ma piuttosto che Scott abbia voluto riprendere in mano la sua creatura. Prometheus, uscito nel 2012, non rappresenta un’evoluzione dal punto di vista della fantabiologia quanto piuttosto un tristissimo caso di regressione. Questo nuovo film di Scott, attesissimo da pubblico e critica perché rappresenta il ritorno del regista inglese alla sci-fi dai tempi dello storico Blade Runner (1982), non solo si dimostra deludente sotto un’infinità di aspetti: prima di tutto una per la sua trama piuttosto illogica e poi per rappresentare una sorta di regressione. Scott, colui che ha regalato ai suoi fans il fanta-horror Alien e che ha contribuito più di chiunque altro alla nascita dell’estetica cyberpunk, grazie ai replicanti di Blade Runner e alla sua visione di una Los Angeles orientalizzata e tecno-decadente, con Prometheus fa un balzo all’indietro di decenni, ritornando a una sci-fi primordiale, alla Merrit potremmo dire. Abbracciando quelle teorie fanta-archeologiche che hanno così larga diffusione negli ambienti ufologici e tra gli pseudo-scienziati di ogni risma.

L’astronave scientifica Prometheus apparsa nell’omonimo film di Scott. Copyright degli aventi diritto.

Certo, è vero che quello che viene rifiutato dal mondo accademico, poiché scientificamente erroneo o inattendibile, può essere ugualmente impiegato in ambito artistico ma, quantomeno a parer di chi scrive, imbastire le proprie opere di assurdità facilita di molto sia le cadute di gusto, sia i nonsense. La sceneggiatura di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey), film capolavoro uscito nel lontano 1968, prevede sia elementi fanta-archeologici che la presenza di extraterrestri e di riflessioni sull’evoluzione della nostra specie. Eppure quale abissale differenza tra questa pellicola anni ’60, a cui lavorarono a quattro mani il regista Stanley Kubrick (1928 – 1999) e il romanziere Sir Arthur C. Clarke (1917 – 2008), e il Prometheus “scottiano”! In 2001: Odissea nello spazio le intelligenze aliene non vengono mai direttamente mostrate, in tal modo il rischio di qualsivoglia antropomorfismo viene evitato: appaiono solo le loro creazioni, degli inquietanti monoliti neri. Uno di loro, in una lontana epoca preistorica, influisce sullo sviluppo intellettivo di un manipolo di uomini-scimmia africani, dando così il via all’alba dell’umanità, mentre un secondo, agli inizi del ventunesimo secolo, viene disotterrato da alcuni astronauti sulla Luna. Quest’ultimo, una volta esposto ai raggi solari, invia un segnale in direzione di Giove, laddove si trova un terzo monolito. Mai una volta, durante la lunga peregrinazione dell’astronave Discovery, ci viene mostrato il volto di questi esseri che hanno influenzato dietro le quinte la nostra evoluzione. Clarke, nella relativa novelization dell’opera “kubrickiana”, non solo situa l’incontro tra l’astronauta superstite David Bowman e il monolito nei pressi di Saturno, in luogo di Giove, ma ci spiega che gli alieni sono scomparsi, o meglio che hanno trasceso l’evoluzione biologica per diventare degli esseri quasi divini. Gli stessi monoliti non sono altro che delle macchine che si sono lasciati dietro, ancora intente a eseguire i compiti per cui vennero progettate eoni prima.

In Prometheus invece gli Engineers (Ingegneri) che danno il via all’origine della vita sulla Terra sono dei giganteschi umanoidi dalla pelle di un bianco pallido. Il loro aspetto, che ritroviamo anche in una monolitica testa di pietra, non è, come potrebbe forse essere indotto pensare qualche spettatore italiano, un omaggio all’arte fascista di mussoliniana memoria quanto piuttosto a certe teste olmeche. Ritrovate a La Venta, nella regione del Tabasco (Messico), vengono collegate dagli archeologi a un centro degli Olmechi attivo tra il 900 e il 500 a.C.; invece questi “testoni” sono la prova per gli archeologi del mistero di contatti tra Mesoamerica e Africa se non con i soliti visitatori alieni. Orbene, gli Ingegneri sono umani, troppo umani sia rispetto agli ET di Kubrick & Clarke sia ai precedenti esseri di Alien! L’uovo di xenomorfo che contagiava Kane era situato all’interno di un relitto, qui si trovava anche un cadavere umanoide (sino a oggi noto come Space Jockey) dal torace infranto. Ebbene, grazie alle rivelazioni di Prometheus,noi adesso sappiamo che quel corpo apparteneva a un Ingegnere che indossava una semplice tuta da astronauta.

Il volto di uno degli Ingegneri di Scott. Copyright degli aventi diritto.

Bisogna dirlo, strana specie quella degli Ingegneri, non solo i loro membri (quasi tutti maschi sembrerebbe, l’unica femmina appare unicamente in effige) potrebbero passare per dei tizi della porta accanto, seppur spilungoni e anemici, ma dobbiamo supporli come appartenenti a una civiltà davvero bizzarra. Miliardi di anni fa causano volontariamente, per motivi non ancora del tutto chiariti, l’inizio alla vita sulla Terra, oppure intervenendo su di un processo naturale già in atto. In seguito, lungo un arco di tempo lunghissimo, i nostri baldi Ingegneri, si recano più volte sul nostro mondo, influenzando la nostra storia e lasciando diverse tracce del loro passaggio, comportandosi proprio come la mitologia ufologica vuole che agiscano degli ET. Anzi, la partenza dell’astronave interstellare Prometheus, finanziata dal ricco Peter Weyland (un Guy Pearce truccato da vecchio), è stata resa possibile dalla presenza di diverse mappe stellari dipinte. Una costanza invidiabile oserei dire, gli Ingegneri non cambiano aspetto nonostante lo scorrere dei milioni di anni (loro non si evolvono forse?), non deviano dai loro scopi. Ebbene, questi fossili viventi non possiedono nessuna delle caratteristiche di saggezza e moralità che ci si potrebbe aspettare da una specie così antica. Fanno esperimenti biotecnologici estremamente pericolosi, conoscono barbarie come le armi di distruzioni di massa (gli xenomorfi in conclusione sarebbero proprio questo), non si tirano indietro dinnanzi al genocidio e alla violenza brutale. L’unico di loro ancora in vita su LV-223, la luna di un gigante gassoso distante anni-luce dalla Terra, quando viene risvegliato dai membri dell’astronave Prometheus inizia subito a dedicarsi al massacro e a pianificare distruzioni apocalittiche. Una vera delusione: da una specie che viaggia da ere geologiche per la Via Lattea ci sarebbe aspettato un comportamento più etico, più maturo e meno auto-distruttivo. Ma forse questo potrebbe essere il modo di Scott di spiegarci perché l’Homo sapiens è così sconsiderato, barbaro e sanguinario: si tratta di difetti di famiglia!

A l’onor del verso persino Alle montagne della follia di Lovecraft, scritto e pubblicato negli anni ’30, appare più moderno dello sventurato Prometheus. Nelle pagine lovecraftiane si avverte realmente l’orrore cosmico e i suoi Grandi Antichi sono creature non – antropomorfe, nate da un processo evolutivo che non riusciamo nemmeno a immaginare. Certo, pure loro come gli Ingegneri mettono il loro zampino galattico nei processi evolutivi nostrani ma in questo caso si è trattato solo di un errore involontario. Laddove l’autore di novelle per riviste pulp, ateo e razionalista, ribadisce la casualità della nostra esistenza, al contrario Scott ci offre una versione del “disegno intelligente” in salsa ufologica. Se poi andiamo a vedere gli elementi misticheggianti che qui e lì il nostro semina all’interno del suo film, con l’eleganza di un elefante in una cristalleria, non si sa davvero se sghignazzare o meno. I mistici segreti sulla vita, sull’universo e tutto quanto (come direbbe lo scomparso Douglas Adams), le speranze della missione dagli intenti “prometeici” (carpire i segreti dei nostri creatori), si traducono in tutta una sequenza di scene da bassa macelleria grazie ai pallidi giganti e alle mostruosità biotecnologiche da loro inventate. Senza contare gli atteggiamenti fideistici, da cieca credente fondamentalista, che ci sono offerti con ostinata pervicacia da Elizabeth Shaw (Noomi Rapace). Unioni ben più fertili tra fantasia biologiche e misticismo le ritroviamo in campo letterario nelle opere di Stapledon, con il già citato Infinito ma anche con Starmarker (Creatore di stelle), con Blood music (L’ultima fase. La musica del sangue) dello scrittore cyberpunk Greg Bear. Volendo, potremo anche includervi la graphic-novel Kaze no tani no Nausicaä (Nausicaä della Valle del Vento) di Hayao Miyazaki, capolavoro della letteratura disegnata che unisce la ricostruzione di un ipotetico ecosistema futuro con riflessioni di carattere mistico-religioso. Rimanendo dalle parti del Sol Levante non possiamo non citare il fanta-kolossal d’animazione The End of Evangelion di Hideaki Anno, continuazione della storica serie Shin Seiki Evangelion (Neon Genesis Evangelion). Comunque sia l’indiscusso primato per aver saputo riunire tra loro speculazioni di carattere evolutivo e riflessioni filosofiche se lo aggiudica senz’altro 2001: Odissea nello spazio. Invece Prometheus, nonostante lo sfoggio di effetti speciali e il tripudio visivo di alcune scene, appare come appartenente alla preistoria, concettualmente povero e vuoto nonostante le pretese di esser altrimenti. Questo film, per la regia di Scott e per la sceneggiatura di Jon Spaihts e di Damon Lindelof, prova a essere una sorta di “odissea nera”, inquietante e potente, ma fallisce miseramente nel tentativo. L’impressione è di essere di fronte a un qualche esempio di cinematografia vintage, un po’ come Viaggio verso Agartha di Shinkai per intenderci. Con la sostanziale differenza che se il richiamo alle prime storie pulp, nel cineasta nipponico pare essere voluto, non son del tutto sicuro che in Prometheus lo sia. Forse possiamo rintracciare dei riferimenti, degli omaggi, delle similitudini (le desolazioni polari, le rovine aliene) con Alle montagne della follia, ma il paragone più immediato è con autori assai diversi dal “solitario di Providence”, più portati per la mera avventura che ad altro: come Merrit e Haggard, ad esempio. Una discesa negli inferi di un “mondo perduto” che nella sua rozzezza è distante anni-luce dalle sofisticherie di Lovecraft o di Kubrick.

Siamo quindi difronte al tipico blockbuster hollywoodiano di ultima generazione, stile Michael Bay per intenderci, cioè un nulla assoluto circondato da esplosioni e effetti speciali? Effettivamente se dal punto di vista concettuale Prometheus fa una ben misera figura, persino a livello di trama e personaggi i problemi non sono affatto pochi. Spedizioni interstellari organizzate da anziani ricconi che cercano la vita eterna, un algida e disumana figlia del suddetto miliardario (Meredith Vickers, la diva Charlize Theron, destinata a una morte quasi cartoonesca), un umano sintetico simile ai replicanti di Blade Runner ma non altrettanto convincente, esploratori che si tolgono il casco per annusare l’aria come in qualche primordiale storia sci-fi degli anni ’20 – 30, scene e scenografie che rimandano ad Alien (per far sentire lo spettatore a casa e non per altro).

E qui vogliamo fermarci, riteniamo che sia abbastanza. Con Prometheus si è compiuto un ciclo, la scienza sembra aver smesso di stimolare la fantasia dei registi e in suo luogo sono subentrate le pseudoscienze. Si omaggia l’idea di Alien di avere un’eroina come unica superstite, ma la pragmatica Ripley viene sostituita dalla fideistica dottoressa Shaw, colei che ammette di continuare a credere al di là di qualsiasi evidenza e di ogni prova contraria. Non si riesce nemmeno ad offrire agli spettatori una scena che sia autenticamente scioccante. Il parto della “seppia” extraterrestre da parte della Shaw è inverosimile, grottesco e assurdo; personalmente lo giudico comico o semplicemente disgustoso, ma di sicuro non drammatico. Il cucciolo tentacolato poi, a differenza dello “spaccapetto” di Alien, cresce a vista d’occhio appena estratto. Lui sì che riesce a metabolizzare l’aria! La sua unione con l’Ingegnere superstite di LV-223 farà nascere uno xenomorfo, pronto per nuove avventure e per altri film. Infatti a Prometheus dovrebbero seguire altri prequel, i quali in teoria dovrebbero chiarirci le idee riguardo a questo pasticciaccio stellare. Il risultato, per certi versi strano e paradossale, prodotto dalla visione di questa pellicola è non solo di far tornare la mente alla sci-fi delle origini, meno complicata e cervellotica di quella odierna, ma anche di far affiorare un pensiero assai curioso. Cioè che sia Alien, sequel di Prometheus seppur girato decenni prima, l’opera matura e compiuta, frutto del pieno rigoglio creativo di un artista. Al contrario, Prometheus mostra inverosimili imperfezioni e immaturità, nemmeno si trattasse del frutto del debutto di un esordiente. Ecco, il nostro viaggio può dirsi compiuto: dalle scorribande “verniane” ai “mondi perduti” dei pulp molta acqua è passata sotto i ponti. Eppure, grazie all’arcaismo cinematografico di Scott, abbiamo assistito a un inaspettato salto verso il nostro ieri. Non tanto quello paleontologico, riscritto dalla fantasia del cineasta britannico, quanto piuttosto quello della sci-fi e della fantasy del primo Novecento.

 

 


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