I MONDI ARTIFICIALI DELLE ARCHE STELLARI


 

A cura di Claudio Cordella

 

«I discendenti dell’originale Popolo delle Stelle, che era partito dalla Terra con tanti progetti esaltanti, non sarebbero certo stati in grado di sopravvivere su un pianeta straniero; e ancora meno di stabilire contatti amichevoli con la popolazione. Così, le dieci navi furono messe in orbita permanente intorno a Leffer, insieme ai rimbecilliti resti dei loro equipaggi, per restarvi finché non si fossero estinti. Ed essi, da quel che si è saputo, ne furono soddisfatti, almeno quanto potevano esserlo creature del genere». SAMUEL R. DELANY, The Ballad of Beta-2, 1965; La ballata di Beta-2, La Tribuna, Piacenza 1970, p. 11.

«Qui sulla Terra Madre non accade mai nulla d’insolito. Tutto scorre in maniera placida e ordinata, da sempre. Io sono nato qui, a bordo, come mio padre e come il padre di mio padre. Bisognerebbe risalire di due generazioni, qualcosa come centoventicinque anni fa, per rintracciare l’avolo nato sulla Terra, il progenitore che ha goduto il sole, l’odore del mare, l’urlo del vento tra gli alberi e le rocce». LINO ALDANI, Eclissi 2000, 1979; in Eclissi 2000, Mondadori, Milano 2006, p.12.

Le gigantesche astronavi sono senz’altro tra le più celebri trovate fanta-tecnologiche di tutta quanta la space-opera. Il maestro della sci-fi statunitense Robert Anson Heinlein ne fece un uso magistrale nel suo ottimo romanzo degli anni ’60 Orphans of the Sky, nato dalla fusione di due precedenti racconti degli anni ’40. Tale opera, pubblicata nel nostro paese per la prima volta nel 1978 con il titolo di Universo, riunisce i racconti Universe (Universo) e Common Sense(Buon senso), originariamente apparsi sulla rivista Astounding Science Fiction nel 1941. Heinlein riesce a rendere plausibile una narrazione che risulta efficace a più livelli: l’avventura d’esplorazione cosmica, legata al viaggio dell’arca stellare multi-generazionale Vanguard, il racconto di formazione e la ricerca della verità, non senza dimenticare un approccio filosofico alla condizione umana. D’altro canto tutti gli abitanti di questa nostra Terra, esattamente come gli sfortunati astronauti della Vanguard di Heinlein, non sono nient’altro che dei navigatori del cosmo, costretti a vivere su quest’immensa astronave naturale che chiamiamo casa. Anche noi abbiamo solo la nostra logica per rispondere agli interrogativi che ci attanagliano: chi siamo e dove stiamo andando. Senza contare che pure il nostro mondo è funestato da violenze e disordini, oltre che da individui privi di scrupoli che odiano chiunque ami pensare con la propria testa, preferendo questi ultimi di gran lunga l’ignoranza, la superstizione e gli irrazionali atteggiamenti fideistici.

Illustrazione di Pascal Blanché, copyright degli aventi diritto.

A ulteriore testimonianza della bontà delle suggestioni di Heinlein, i temi dell’ammutinamento e delle mutazioni che potrebbe subire l’equipaggio di un vascello interstellare, ricorrono anche nel recente film fanta-horror Pandorum (Pandorum – L’universo parallelo, 2009), diretto dal regista tedesco Christian Alvart. L’idea di un morbo cosmico che causa allucinazioni e paranoia, il Pandorum del titolo, si sposa con il dramma di una Terra con i giorni contati che ricorre all’emigrazione nello spazio quale estrema risorsa per poter sopravvivere. Alvart, a differenza di Heinlein, ricorre all’espediente dell’ibernazione piuttosto che a quello del mondo artificiale al cui interno si succedono le generazioni durante il tragitto. Il perno di questo thriller sci-fi sarà proprio il motivo per cui parte dell’equipaggio ha continuato a dormire mentre altri, ben desti e pericolosi, hanno popolato per secoli le stive dell’astronave Elysium, mutando in brutali selvaggi cannibali, nonché quale sia la reale posizione di quest’ultima rispetto alla sua meta: il pianeta Tanis. Una questione di cruciale importanza dato che il nostro mondo, a causa di una catastrofe non ben specificata, ha cessato di esistere e le sorti dell’Elysium diventano cruciali per il futuro dell’Homo sapiens. Purtroppo la claustofobica pellicola di Alvart, pur partendo bene da ottimi presupposti di chiara derivazione heinleniana, si perde lungo la strada per diventare l’ennesimo film a base di mostri antropofagi. Uno stile del tutto diverso lo riscontriamo in James Blish, che con un certa originalità, arriva a descrivere la trasformazione delle città della Terra in navi spaziali grazie alla scoperta dell’antigravità. Tutto questo avviene all’interno del ciclo di racconti Cities in Flight (Le città volanti), apparsi tra il ’55 e il ’62. Gli abitanti di queste megalopoli dei cieli sono chiamati Okie, ardimentosi nomadi del cosmo che si trovano a dover affrontare le situazioni di crisi dalla natura più diversa (ad esempio, apocalittici conflitti interplanetari). L’isola di Manhattan, trasformata anch’essa in un’astronave, è per sua fortuna guidata dall’abile e scaltro sindaco John Amalfi. Nell’ultimo episodio della saga, Earthman, Come Home (Torna a casa, terrestre), egli fa atterrare la sua nave-città su di un pianeta della Grande Nube di Magellano. Dopo esser riuscito a mettere in scacco una brutale tirannia e a ingannare tutti i suoi nemici, Amalfi fa in modo che quel pianeta possa diventare una nuova patria per la sua gente.

Particolare dell’astronave Elysium, Pandorum. Copyright degli aventi diritto.

Se Blish preferisce imbastire una saga avventurosa a “misura d’uomo”, popolata da personaggi umanissimi e credibili, assai lontani dai super-geni atletici della space-opera anni ’30 – ’40, al contrario Samuel R. Delany con il suo The Ballad of Beta-2 (La ballata di Beta-2, 1965), rilegge l’ormai consolidato tema dell’arca stellare alla luce della linguistica e dell’antropologia. Uno studioso riluttante, che considera ogni ricerca in merito una perdita di tempo, viene inviato a indagare su quello che rimane di un’antica flotta interstellare per scoprire i segreti del misero patrimonio culturale di una popolazione di superstiti: il Popolo delle Stelle. Costoro sono i discendenti dei membri di un’antica spedizione interstellare, dimenticata dalla maggior parte della galassia civilizzata. A causa della scoperta del viaggio nell’iperspazio, che permette di aggirare il limite della velocità della luce, il senso della loro impresa è venuto a mancare: «Quegli uomini lasciarono la Terra diretti alle stelle nel 2242, aspettandosi di viaggiare nello spazio per dodici generazioni, prima di giungere ad un’incerta destinazione. Ma erano partiti da soli sessant’anni quando i viaggi attraverso l’iperspazio divennero una realtà scientifica su larga scala. Con il tempo, le dieci astronavi rimanenti arrivarono nel Sistema Lefferiano: la Terra vi aveva già stabilito posti di scambio commerciali e culturali, che erano allora vecchi di un centinaia di anni, con parecchi altri sistemi. E questo fu un bene, perché il livello della civiltà, a bordo delle astronavi, era sceso ad un grado primitivo e barbarico». DELANY, La ballata di Beta-2, pp. 10 – 11.

Illustrazione di Antonio Javier Caparo. Copyright degli aventi diritto.

In buona sostanza quel che rimane del Popolo delle Stelle, funestato nei secoli da mutazioni e follia, è costituito da emarginati, degli esseri miserabili che considerano quale loro patria unicamente le loro astronavi. Queste non sono nient’altro altro che dei poveri relitti lasciati in un’orbita di parcheggio attorno al pianeta di Leffer VI, una riserva per dei primitivi che praticano dei riti bizzarri. Eppure un’enigmatica ballata che si tramanda da generazioni, la Ballata di Beta-2, nasconde tra le sue metafore un’incredibile quanto insospettabile segreto. Una verità sepolta, legata ai crimini disumani commessi sulla flotta diretta al Sistema Lefferiano durante il suo viaggio, che ci apre al tempo stesso uno spiraglio sulla futura evoluzione della nostra specie. Gli esempi sin qui riportati, con la lodevole eccezione di Blish, tendono a focalizzare la loro interesse su tutto ciò che potrebbe andar male nel corso di una traversata interstellare (violenze, mutazioni, etc) mentre altri hanno preferito concentrarsi sul valore di speranza che simili imprese potrebbero rappresentare per l’umanità. Una veterana della space-opera come Leight Brackett, nota anche per aver lavorato alla sceneggiatura dello starwasiano The Empire Strikes Back (L’impero colpisce ancora, 1980) poco prima di morire, ci ha regalato un toccante ritratto di un “popolo” in fuga nel suo Alpha Centauri or Die (Alfa del Centauro, 1963). In un futuro Sistema Solare irreggimentato e meccanizzato il volo spaziale umano viene proibito, solo ai vascelli robotici viene permesso di viaggiare tra i diversi pianeti colonizzati. Anche il superare i limiti dell’orbita di Plutone, per dirigersi verso le stelle, viene parimenti vietato per legge. Seguendo il più abusato cliché del mito americano della Frontiera, seppur con interessanti tratti di verismo, la Brackett ci racconta di un manipolo di ardimentosi, desiderosi di fuggire dalla prigione dorata in cui sono rinchiusi. Questi futuri coloni, assieme alle loro famiglie, riusciranno a partire alla volta di Alpha Centauri a bordo di un’astronave costruita in gran segreto. Inseguendo il loro sogno di libertà e superando insidie di ogni tipo, costituite da navi-robot inseguitrici, alieni e privazioni, i nostri riusciranno a creare una nuova patria per sé stessi e per i loro discendenti. L’idea del cosmo quale ultima speranza per il genere umano, presente del resto pure nel sopracitato Pandorum, ha una lunga tradizione alle spalle. Raggiungere le stelle non si tratta in questi casi semplicemente di una questione opzionale, di una sete di avventura e di un bisogno di esplorare che devono essere esaudite, quanto piuttosto si tratta come minimo di una fuga dall’oppressione, come nel caso della Brackett, se non addirittura della stessa sopravvivenza del genere umano.

Se Sir Arthur C. Clarke con Rendezvous With Rama (Incontro con Rama, 1973), ci racconta dell’incontro con un’immensa arca aliena cilindrica, un mondo artificiale viaggiante, che risulta essere completamente incomprensibile per gli esploratori umani che si avventurano al suo interno, in The songs of distant Earth (Voci di Terra lontana, 1986) il grande autore cambia completamente registro. La morte del Sole, destinato a mutare in nova, muta il corso della storia umana che per secoli intraprende la colonizzazione galattica quale via di scampo alla distruzione totale. Dapprima impiegando delle apposite navi inseminatrici, contenenti degli embrioni congelati oppure dei filamenti di DNA memorizzati nelle banche dati dei computer, arrivando infine a scoprire il segreto del motore quantico, che permette di estrarre energia dallo struttura dello spazio stesso, solo poco prima della morte della Terra. A tale ecatombe solo il Magellano, un enorme vascello su cui vengono imbarcate centinaia di migliaia di persone in stato di ibernazione, riesce a fuggire dal Sistema Solare che viene devastato dall’esplosione della nostra stella. Clarke si sofferma nel descrivere l’incontro tra i Terrestri, provenienti da una civiltà crepuscolare ormai svanita per sempre e segnati da un grave trauma, e i felici coloni del pianeta Thalassa, membri di una società quasi utopica. Un paradiso tropicale costituito da uno sparuto gruppo di isolette che esercitano un indubbio fascino su questi cosmonauti, solo in pochi però decideranno di rinunciare alla loro missione mentre la maggioranza sceglierà di proseguire verso la destinazione prestabilita, il mondo di Sagan Due. La nuova patria che essi dovranno rendere abitabile. Un anime del ’75 come Uchu no Kishi Tekkaman (Tekkaman, il cavaliere dello spazio), regia di Tatsuo Yoshida, ci presenta uno scenario similmente drammatico. Al nostro pianeta, devastato dall’inquinamento, rimangono solo tre anni di vita e se l’umanità vuole scampare a questo collasso ecologico deve trovarsi una nuova casa nella galassia. Sviluppare un’adeguata tecnologia che consenta il viaggio interstellare non è certo semplice e a complicare le cose ci si mettono persino dei misteriosi invasori alieni. Yoshida, seguendo le imprese di un guerriero dall’armatura cibernetica e dei suoi compagni, ci regala un’opera tesissima. Rovinata dalla presenza di extraterrestri crudeli e buffoneschi, le cui motivazioni sono prive del benché minimo senso, nonché dall’assenza di un finale degno di questo nome(01).

Partenza della corazzata spaziale Yamato nel film Uchū Senkan Yamato: Fukkatsu Hen (Space Battleship Yamato: Resurrection).

In uno dei più celeberrimi anime di tutti i tempi, Uchū Senkan Yamato (Corazzata Spaziale Yamato, ’74 – ’75), tratto da un omonimo manga di Leiji Matsumoto e diretto da Noboru Ishiguro assieme allo stesso Matsumoto, ci imbattiamo ancora una volta in un viaggio della speranza: la Terra è stata resa radioattiva da una serie di attacchi alieni e solo una rischiosa odissea sino al pianeta Iscandar, nella Grande Nube di Magellano, potrà garantire la salvezza. Starsha, sovrana di Iscandar, offre generosamente ai Terrestri il Cosmo-Cleaner D, un dispositivo che renderà la loro patria abitabile come un tempo. Le avventure della Yamato hanno avuto diversi seguiti, sia cinematografici che televisivi mentre nel nostro paese è assai nota la versione americanizzata di questo anime, conosciuta come Star Blazers. L’odissea verso Iscandar è stata recentemente portata nei cinema giapponesi da una pellicola con attori in carne e ossa, Supēsu Batorushippu Yamato (Space Battleship Yamato, 2010), un film che pur conservando il lieto fine del vecchio serial TV ne stravolge diversi presupposti e ne amplifica la drammaticità. Un ottimo remake d’animazione in ventisei episodi, sempre incentrato sulle peripezie iniziali della corazzata Yamato, è invece Uchū Senkan Yamato Ni-ichi-kyū-kyū (Space Battleship Yamato 2199, 2012 – ’13), diretto da Yutaka Izubuchi e da Akihiro Enomoto. Si tratta di un anime di ottima fattura che ripercorre i sentieri già battuti in precedenza, seppur con una maggiore maturità e profondità. Segnaliamo qui come Yoshinobu Nishizaki, il quale aveva già svolto il ruolo di produttore per la Corazza Spaziale Yamato e collaborato con Matsumoto alla stesura della relativa sceneggiatura, abbia fatto uscire nel 2009 il lungometraggio Uchū Senkan Yamato: Fukkatsu Hen (Space Battleship Yamato: Resurrection), in cui è indicato come regista. Quel che ci interessa notare in quest’opera è come l’ennesimo pericolo mortale che minaccia la Terra, una consuetudine per le storie della Yamato, viene affrontato con un’emigrazione di massa. Grandi flotte spaziale, costituite da immense arche stellari, iniziano ad evacuare la popolazione mentre un buco nero errante si avvicina progressivamente al nostro Sistema Solare.

Uchū Senkan Yamato: Fukkatsu Hen (Space Battleship Yamato: Resurrection), decollo di una flotta di emigrazione. Copyright degli aventi diritto.

Ritornando negli anni ’70, ci si imbatte nel telefilm Battlestar Galactica (Galactica), prodotto da Glen Larson, trasmesso per la prima volta negli USA dal 17 settembre 1978 al 29 aprile 1979. Il mix di fanta-archeologia e di azione fracassona di cui è imbastita la trama, non convincono i telespettatori dell’epoca. Dopo il miserevole Galactica 1980, una serie TV improntata all’economia di mezzi e di idee, Battlestar Galactica rivive agli inizi del nuovo secolo nel ben più maturo remake di Ronald D. Moore. Quest’ultimo, già noto per il suo apporto a Star Trek:Deep Space 9 e Star Trek: Voyager(02), riscrive la storia del conflitto tra gli umani e i robotici Cylons (Cyloni) impiegando toni più drammatici e realistici del suo sfortunato predecessore. Una civiltà, fiorita sui mondi delle Dodici Colonie, tra i quali il più ricco e tecnologicamente avanzato è Caprica, è stata travagliata da una guerra senza quartiere con i Cyloni, delle Intelligenze Artificiali originariamente create dai Coloniali in qualità di forza lavoro e in seguito ribellatisi ai loro padroni. Quando, 40 anni dopo il termine della fine del conflitto tra le due razze, i Cyloni si fanno rivedere sono cambiati, alcuni di loro hanno persino ottenuto delle fattezze umane. Una spia umanoide dei Cyloni, la bella Caprica Six (Caprica Sei), riesce a far innamorare di sé il vanesio ed egocentrico dottor Gaius Baltar, responsabile del nuovo sistema informatico dell’esercito. Baltar, ignaro della reale natura della sua amante, permette a Caprica Sei di avere accesso al network militare e di inserirvi delle apposite backdoor. Grazie ad esse i Cyloni possono penetrare le difese coloniali, rendendone inefficaci gli armamenti. Le più grandi città di Caprica e degli altri mondi vengono così bombardate da testate termonucleari. È il giorno della Caduta delle Dodici Colonie (o Olocausto Cylone), d’ora in poi poche decine di migliaia di sopravvissuti, a bordo di un pugno di vascelli siderali, intraprenderanno un lunghissimo viaggio verso la Terra: la mitica Tredicesima Colonia. A guidarli e proteggerli ci sarà sempre la nave da battaglia BSG-75 Galactica, al comando del tenace e abile colonnello comandante (poi ammiraglio) William Adama (Adamo), noto con l’appellativo di Oldman (Vecchio). È il bravo attore Edward James Olmos, già apparso nel cult-movie Blade Runner di Ridley Scott, che riesce a dar vita a questo realistico e umanissimo personaggio. A volte incapace di comunicare con il proprio figlio, il capitano Lee “Apollo”, al tempo stesso legatissimo da una profonda amicizia con il proprio comandante in seconda, il colonnello Saul Tigh, il suo XO, Executive Officer, l’Ufficiale Esecutivo del Galactica. All’interno del convoglio scortato dal Galactica sopravvive una parvenza di governo democratico, rappresentato dal Consiglio dei Dodici e dal presidente Laura Roslin, magistralmente interpretata dall’attrice Mary McDonnel, già vista nel western Dances with Wolves (Balla coi lupi, 1990). Laura è una ex-insegnante che si è data alla politica, diventando prima Segretaria all’Istruzione e poi presidente al seguito della scomparsa di tutti gli altri esponenti del governo coloniale. Ammalata di un cancro al seno incurabile, di cui ha scoperto l’esistenza poco prima dell’Olocausto Cylone, questa donna dal carattere forte è un character tragico che si ammanta di un’aura di messianismo. L’estratto di Camalla, un rimedio alternativo che usa per combattere il suo male, le provoca delle strane visioni che aiuteranno l’umanità nella ricerca della Tredicesima Tribù. Bisogna riconoscere che nella Battlestar Galacticadi Moore i temi religiosi non mancano. Se i Cyloni sono monoteisti, adorano un dio senza nome che ricorda quello della tradizione giudaico-cristiana e dell’Islam, al contrario i Coloniali sono politeisti, seguaci di un pantheon che richiama la mitologia greco-romana.

Illustrazione di Antonio Javier Caparo. Copyright degli aventi diritto.

Salvata in extremis grazie ad una sostanza estratta dallo stesso corpo di Hera, un ibrido umano/cylone, Laura continuerà sino all’ultimo a mantenere un ruolo di leader e di profeta. Curiosamente, da un certo momento in poi, le sue visioni riguarderanno sia Hera che un gruppo particolare di Cyloni: i Final Five (Ultimi Cinque). Il remake di Moore parte dall’assunto fanta-archeologico della serie classica, relativo all’origine extraterrestre dell’umanità, ma il rapporto esistente tra la Terra, Kobol, il pianeta madre delle Dodici Colonie e queste ultime, viene visto sotto una luce del tutto diversa. Questo mondo è stato distrutto da una lotta contro delle macchine senzienti, le prime Intelligenze Artificiali in assoluto a essere state create. Dopo l’apocalisse, gli umani partono verso i pianeti che in futuro costituiranno le Dodici Colonie, mentre gli umanoidi artificiali, dei Cyloni organici, vengono a costituire la Tredicesima Tribù e si dirigono verso la Terra. Questo popolo abbandona la tecnologia della resurrezione, che permetteva loro di fare il download della propria coscienza in un altro corpo dopo la morte, iniziando a riprodursi come degli autentici Homo sapiens. Sconsideratamente, in seguito essi a loro volta realizzano dei servi meccanici che non rimangono a lungo fedeli ai propri creatori. Il successivo spaventoso conflitto, tra padroni biologici e schiavi meccanici, si conclude per l’ennesima con un violento olocausto nucleare. Solo in cinque riescono a scampare a questo inferno: i Final Five.

Costoro, avendo riscoperto l’antica tecnologia della resurrezione, pericoscono nel corso dei bombardamenti ma riescono a scaricare le loro memorie in dei corpi sostitutivi e iniziano un lungo viaggio alla volta delle Dodici Colonie. Le loro intenzioni nei riguardi dei Coloniali sono benevole, volendoli avvertire del pericolo insito nella creazione della vita artificiale. Per sfortuna la nave dei cinque non è dotata di motori FTL (Faster Than Ligh), che gli consentirebbe di viaggiare a velocità superiori a quelle della luce, quindi il viaggio del gruppetto dura circa duemila anni. Arrivati 40 anni prima della Caduta, i Final Five si trovano catapultati nel bel mezzo del primo conflitto tra Coloniali e Cyloni. Tentando di salvare il salvabile essi offrono a questi ultimi, in cambio del termine delle ostilità, la tecnologia della resurrezione e iniziano a creare degli altri modelli di umanoidi. Peccato che uno di loro, Cavil, inizi a sviluppare una personalità violenta e mentalmente disturbata. Quest’ultimo decide di uccidere i Final Five, che ostacolano con la sua leadership, per poi farli risorgere alterando le loro memorie. Purtroppo per lui, nonostante il suo fanatismo, dopo la Caduta delle Colonie l’unità dei Cyloni incomincia man, mano a mancare. Non tutti sono convinti che sia stato saggio sterminare l’umanità. Anzi, con il trascorrere del tempo le decisioni dell’insano Cavil saranno contestate da una fetta sempre più consistente della sua gente. Sino a che una guerra civile non diventerà inevitabile. La fazione di Cavil, priva del sostegno dei Final Five, che si alleano con Adamo e la Roslin, finisce con l’essere quella perdente. Nel corso della conclusiva quarta stagione, una volta scoperto che la Terra non è nient’altro che il mondo morto dei primi Cyloni, solo un intervento di carattere divino può salvare la nostra specie dall’estinzione. Kara “Starbuck/Scorpion” Thrace è un eccellente pilota, legata sia ad Adamo che alla sua famiglia, morta e inspiegabilmente risorta, è ora un essere angelico. Solo lei sarà capace di condurre l’intera flotta verso una nuova patria, un globo verde-azzurro con una grande luna: il nostro pianeta. Qui, lasciati liberi di andarsene nello spazio profondo i Centurioni, i Cyloni robotici, i Coloniali e i loro alleati umanoidi si uniscono con i primi Homo sapiens per dar vita a un unico popolo. È l’inizio di un nuovo ciclo dell’esistenza che dovrebbe spezzare il continuo susseguirsi di guerre tra uomini e macchine.

Gall Force 3 – Stardust War (Gall Force 3 – Polvere di stelle). Copyright degli aventi diritto.

Simili soluzioni misticheggianti, caratterizzate dall’idea di un tempo ciclico, parimenti le ritroviamo nei film d’animazione della serie Gall Force, diretti da Katsuhito Akiyama(03). Le prime tre pellicole, Gall Force – Eternal Story (1986), Gall Force 2 – Destruction (Gall Force 2 – Distruzione, 1987) e infine Gall Force 3 – Stardust War (Gall Force 3 – Polvere di stelle, 1988), mescolano abilmente le paure della Guerra Fredda con la space-opera. I Solnoidi, una specie umanoide costituita unicamente da esseri femminili che si riproducono per partenogenesi, sono da lungo tempo in lotta contro i Paranoidi, alieni privi di una forma ben definita che si servono di corpi cibernetici. Due immense flotte, supportate da potentissimi armi di distruzioni di massa, porta alla scomparsa dei mondi d’origine di entrambi i contendenti. L’unica speranza sembra racchiusa nella realizzazione di un ibrido, rappresentate di una terza forza che potrebbe svolgere il ruolo di intermediario tra i due irriducibili antagonisti. Alla conclusione della trilogia filmica originaria, sul nostro pianeta il frutto di questi esperimenti di ingegneria genetica, i primi Homo sapiens, si stanno diffondendo con successo mentre Solnoidi e Paranoidi si avviano alla battaglia finale che gli annienterà completamente.

Se in Moore faceva capolino un Dio panteista, inserito nell’universo come forza della Natura con un suo proprio piano per la salvezza del genere umano, in Akiyama predomina la raffigurazione di un destino di morte ineluttabile, accompagnato da una concezione ciclica del tempo. A sua volta affiancata da quella della reincarnazione, tipica dell’induismo e del buddhismo. Le similarità, narrative e speculative, tra Battlestar Galactica e Gall Force, ci sembrano evidenti al di là di qualsiasi ragionevole dubbio. In Gall Force 3 – Polvere di stelle si fa persino cenno a un mitico pianeta perduto, origine degli antenati dei Solnoidi, in pratica l’equivalente del Kobol dei Coloniali. Nei successivi OAV Rhea Gall Force (1989) e Earth Chapter 1–3 (1989), il recupero sulla superficie della Luna di reperti risalenti al conflitto sopracitato provoca un nuovo ciclo di caos e morte. L’impiego delle tecnologie cibernetiche rinvenute non fa nient’altro che provocare la resurrezione dei Paranoidi. La narrazione segue le imprese di un gruppo di combattenti che rappresentano gli avatar delle soldatesse Solnoidi del passato. In Gall Force New Era 1–2 (1991), quando la violenza divamperà per l’ennesima volta, solo un piccolo gruppo di sopravvissuti riuscirà a trovar scampo nel cosmo. Rimanendo negli anni ’80 e dalle parti del Sol Levante ci imbattiamo in Chōjikū yōsai Makurosu (Fortezza superdimensionale Macross, 1982 – ’83), opera dello studio Nue a cui presero parte Shoji Kawamori, autore della storia e mecha designer, mentre la regia è del duo Noburo Ishiguro & Hiroyuki Yamaga. Character designer dei personaggi è Haruiko Mikimoto, amico dei tempi dell’università di Kawamori(04). In Macross una gigantesca astronave aliena, denominata ASS-1, Alien Star Ship-1, precipita nell’isoletta di Sud Atalia, nell’Oceano Pacifico. Il suo ritrovamento, unito allo studio dell’avanzata tecnologia extraterrestre, provocano la nascita di un governo mondiale e di una cruenta lotta contro l’antagonista movimento Anti-Unificazione. Questa guerra civile a livello planetario viene descritta in un prequel, Makurosu Zero (Macross Zero, 2002), costituito da cinque episodi, diretti dallo stesso a Kawamori. Riunita, per la prima volta nella sua storia, sotto un’unica bandiera, la razza umana si trova a dover affrontare la minaccia costituita da una bellicosa specie di alieni giganti: gli Zentradi. Una loro flotta, capitanata dall’esperto comandante Vrlitwhai Kridanik che è da tempo all’inseguimento dell’astronave caduta sulla Terra, raggiunge il proprio obiettivo il giorno in cui gli esseri umani, dopo averla ricostruita e rinominata Super Dimensional Fortress-1 (SDF-1) Macross, sono pronti a lanciarla nello spazio.

SDF-1 Macross, illustrazione. Copyright degli aventi diritto.

Come se questo non bastasse, padroneggiare una tecnologia aliena di cui si è semplicemente fruitori e che non si comprende appieno, non certo una cosa semplice. Il comandante della fortezza, Bruno J. Global, non tarda ad accorgersene quando da l’ordine di attivare i propulsori anti-gravitazionali: questi ultimi si staccano dalla SDF-1, squarciandone lo scafo e alzandosi in cielo da soli, lasciando l’astronave a terra. La sfortuna di Global con i manufatti extraterrestri prosegue nel momento in cui l’ufficiale decide di fare una Piega, un salto nell’iperspazio che nelle sue intenzioni dovrebbe portare Macross alle spalle della flotta nemica, nelle vicinanze della Luna. Purtroppo per lui qualcosa, anche questa volta, non funziona nel verso giusto e la SDF-1 Macross si ritrova agli estremi confini del Sistema Solare. Persino l’isola di Sud Atalia viene trascinata nello spazio e assieme lei l’intera città di Macross City, sorta a suo tempo attorno all’astronave aliena in fase di ricostruzione. Migliaia di civili, sopravvissuti nei rifugi sotterranei a tenuta stagna, vengono trasportati all’interno di Macross dove, tra mille difficoltà, ricostruiranno pezzo per pezzo la propria città. Le analogie con la Manhattan delle Città del cielo di Blish balza subito all’occhio, similitudini che sequel come Makurosu 7 (Macross 7, ‘94-’95) e Makurosu Furontia (Macross Frontier, ’07-’08), accentuano con l’introduzione di megalopoli viaggianti rinchiuse in cupole con tanto di valva protettiva simile a quella di una conchiglia. L’odissea verso la Terra della SDF-1 Macross è lunga, irta di difficoltà, la narrazione si muove lungo un duplice binario: da un lato si seguono le vicende dei militari della fortezza, impegnati a rintuzzare i continui attacchi degli Zentradi, mentre contemporaneamente vengono narrate le vicende della popolazione civile, costretta a vivere suo malgrado nelle viscere dell’astronave.

Ad esempio, la bella sino-giapponese Lynn Minmay diventa nel corso del viaggio un’idolatrata pop-star mentre il pilota acrobatico Hikaru Ichijo, incoraggiato nella sua scelta sia da Minmay che dall’amico Roy Fokker, si arruolerà e diventerà un provetto pilota da caccia. L’arrivo sulla Terra non rappresenta la fine delle traversie né per i difensori di Macross, né per le migliaia di profughi che si porta appresso dato che i vertici militari vedono l’astronave solo come un utile esca. Essi arrivano persino a impedire ai civili di Macross City di poter sbarcare. I maneggi politici di costoro, così come l’impiego delle armi più sofisticate e potenti a loro disposizione, alla fine non danno alcun esito positivo e il nostro mondo subisce un pesante bombardamento orbitale. Al contrario l’equipaggio dell’SDF-1, alleatisi con la flotta di Vrlitwhai, giudicata dal supremo comandante Zendradi Golg Boddole Zer contaminata dalla civiltà umana, riesce ad avere la meglio sulla Flotta Principale, un’armata costituita da ben oltre 4 milioni di navi. Qui le similitudini con il fronte dei Cyloni della Battlestar Galactica di Moore, la cui compattezza nel corso della quarta stagione veniva definitamente a mancare, balzano immediatamente agli occhi. Senza contare che tematiche fanta-archeologiche sono state innestate con successo sia nella trama di BSG, sia in Macross. La sconfitta della Flotta Principale avviene perché i Terrestri, chiamati Microniani dagli Zentradi, discendono dalla Protocultura, un’avanzatissima civiltà galattica primordiale legata al passato della specie umana quanto dei suoi nemici. Gli Zentradi, creati dall’ingegneria genetica come soldati giganti, si riproducono per clonazione e sono capaci solo di combattere. Migliaia di anni fa, a causa di una guerra civile, la Protocultura collassò e i suoi guerrieri genetici iniziarono a scorrazzare per la Via Lattea, portando ovunque passassero morte e distruzione alla stregua di barbari tecnologici. A contrastarli è rimasto solo un misterioso Gruppo di Spedizione Armato, di cui non si sa granché, tranne che è composto da eredi diretti della Protocultura, padroni della sofisticata tecnologia necessaria per poter costruire fortezze come la SDF-1 Macross. L’asso nella manica dei Terrestri sta proprio nelle loro radici protoculturiane: essi conoscono la musica e la riproduzione sessuale, entrambi ignote ai loro nemici. Vrlitwhai, che da tempo ha inviato delle spie micronizzate su Macross, si è fatto un’idea della Protocultura dei Microniani e così pure le sue truppe, affascinate da uno stile di vita per loro così nuovo. Al contrario i soldati della Flotta Principale sono impreparati a un simile shock culturale. É una canzone di Lynn Minmay, Ai Oboete Imasu ka? (Ti ricordi l’amore?), trasmessa su tutte le frequenze degli Zentradi assieme alla scena di un bacio, a causare il panico tra le fila degli aggressori(05).

Megazone 23 part II. Copyright degli aventi diritto.

Macross ha fatto scuola sin dal suo apparire(06), un esempio particolarmente interessante è costituito dai tre OAV Megazone 23 (1985), Megazone 23 part II (1986) e Megazone 23 part III (1987), diretti da Noboru Ishiguro. Quest’ultimo, che ritroviamo come direttore dell’animazione della Corazzata spaziale Yamato e alla regia generale per Macross, si avvale della sua precedente esperienza per trasfigurare la space-opera con gli stilemi paranoici della narrativa di Philip K. Dick. Ecco che vediamo ancora una volta un vascello nel cosmo, sempre alle prese con dei pericolosi alieni, nelle cui viscere è stato ricostruito un mondo simile al nostro. Peccato che solo i militari, impegnati in continui combattimenti assieme a pochi altri, siano realmente a conoscenza del vero stato delle cose. La maggior parte della popolazione civile vive in una realtà fittizia, controllata da un super-computer, Bahamut, completamente ignara di essere nello spazio. Come in Macross, pure qui appare una cantante: Eve, fasulla e virtuale esattamente come ogni cosa a bordo dell’astronave Megazone 23. Se nella Vanguard di Heinlein l’equipaggio aveva perso qualsivoglia conoscenza sulla propria natura, sullo scopo della missione intrapresa dai propri antenati e sul luogo in cui essi venivano a trovarsi, gli sventurati cittadini di Megazone 23 si ritrovano calati in un’analoga ignoranza a causa delle macchinazioni di un potere occulto. Si tratta naturalmente di un tipico filone della sci-fi paranoica, di cui Dick fu un magistrale interprete, analogo a quello di pellicole come They Live (Essi vivono, 1988) di John Carpenter e Matrix (1999) dei fratelli Wachowski. Oppure di The Truman Show (1998) di Peter Weir, che condivide con gli OAV di Ishiguro l’idea di un illusorio mondo-set cinematografico, per non parlare di Dark City (1998) di Alex Proyas. Qui degli alieni ricostruiscono un’intera città nel cosmo, per compiere degli esperimenti sugli inconsapevoli abitanti, i quali risultano essere ignari di tutto esattamente come quelli dell’astronave Megazone 23. Ennesimo esempio, assai bizzarro a dire il vero, ci viene fornito dal romanzo Eclissi 2000 (1979) di Lino Aldani in cui una comunità sotterranea, sopravvissuta a un olocausto nucleare, viene convinta con l’inganno di trovarsi a bordo di un’arca multi-generazionale, la Terra Madre, intenta a compiere un viaggio cosmico in direzione di un fantomatico pianeta extrasolare. Una condizione che è l’esatto opposto di quella ipotizzata da Ishiguro, quasi si trattasse di un doppio speculare. Forse, al di là del tipico sogno dell’Alta Frontiera e dei peripli cosmici che si portano appresso, tutte queste narrazioni, letterarie, cinematografiche e televisive, vogliono ricordarci principalmente questo: che non dobbiamo mai dimenticare chi siamo e dove stiamo andando. Perché tutti quanti noi, in una maniera o nell’altra, stiamo compiendo un viaggio nel flusso dello spazio-tempo.

Illustrazione di Antonio Javier Caparo. Copyright degli aventi diritto.

Note

(01) Purtroppo questo serial d’animazione, prodotto dalla celebre Tatsunoko, venne interrotto dopo la trasmissione del ventiseiesimo episodio mentre in origine avrebbe dovuto esser composto da cinquantadue puntate.

(02) Serie in sette stagioni imperniata sui tentativi di un’astronave della Federazione, la USS Voyager alla guida del capitano Kathryn Janeway (Kate Mulgrew), per poter ritornare in patria dopo esser stata scagliata nel Quadrante Delta, a 70mila anni-luce dalla Terra.

(03) Tutte le produzioni di questa saga vedono alla regia Katsushito Akiyama e al character design dei personaggi Kenichi Sonoda. Fanno eccezione gli OAVGall Force – The Revolution in cui Akiyama viene affiancato da Kyoko Tsuchiya. D’altra parte questo OAV non ha assolutamente niente a che vedere con le storie precedenti. Esiste anche una sorta di prequel, Star Front Gall Force, apparso come fotoromanzo sulle pagine della rivista Model Graphix.

(04) Nei canali statunitensi nel 1985 fa la sua comparsa Robotech, serie – collage creata da Carl Macek nella quale Macross viene rimontata assieme ad altri due anime robotici (Chōjikū Kidan Southern Cross e Kiko Soseiki Mospeada), in modo da risultare come la prima parte di una trilogia.

(05) Nel film del 1984 ispirato dalla serie TV classica di Macross, Chō Jikū Yōsai Makurosu: Ai Oboete Imasu ka? (Macross – Il film), diretto da Kawamori e da Ishiguro, gli Zentradi maschi combattono una folle guerra dei sessi contro le stesse donne della loro specie, le Meltradi. Per di più nel corso del conflitto viene scoperta sulla Terra una città fondata migliaia di anni prima da alcuni discendenti dei protoculturiani. Costoro abbandonarono le loro dimore sulla Terra, per sottrarsi ai violenti scontri tra Zentradi e Meltradi, ma prima di andarsene contribuirono, grazie all’ingegneria genetica, all’evoluzione della specie umana.

(06) Recentemente il fumettista Tsutomu Nihei, con il suo manga Sidonia no Kishi (Knight of Sidonia), edito sin dal 2009 sulla rivista Afternoon e tutt’oggi ancora incompiuto, ci presenta situazioni alla Macross (c’è un’arca spaziale, la Sidonia, con i suoi eroici difensori) e alla Battlestar Galactica (la Terra è stata distrutta dagli alieni Gauna, quindi bisogna trovare una nuova patria). Il tutto però viene condito con elementi fanta-horror a base di mostruosità biotecnologiche.


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