Il sorprendente Jeeg Robot di quartiere


12719057_2496134340674000_7446288407165172421_oChe un disco volante, ormai, possa atterrare senza problemi – se non a Lucca – alla periferia di Roma, lo hanno dimostrato i fratelli Manetti con L’arrivo di Wang, piccolo film di fantascienza perfettamente calato nel contesto italiano, abile giocattolo di suspense mirabilmente di genere, visto purtroppo pochissimo in sala. Auguriamo un destino migliore al botteghino a Lo chiamavano Jeeg Robot, nei cinema a partire da questo fine settimana e a quanto pare, già in grado di conquistarsi interesse; nonché spazio distributivo, dato che chi scrive l’ha appena visto in un multiplex e in una sala piena (per quanto la più piccola del complesso).

Lo auguriamo perché il film merita svariati strilli di giubilo e almeno un “Si… può… fare” in stile dottor Frankenstìn. Non tanto all’idea che si possa fare cinema italiano di genere in generale: quello esiste e gode di buona salute, sebbene declinato e realizzato solo laddove le molte distrazioni e ritardi culturali del nostro pubblico mainstream – o di chi decide per esso – lo consentono. Ma che possa arrivare in sala un film di genere, sì, “di supereroi”, fatto con tanto amore, entusiasmo e abilità nel trasformare i molti passaggi obbligati (ma anche “graditi”, per il nerd consapevole) di una storia di questo tipo, calandoli in un contesto tricolore contemporaneo credibile e trasformando l’insieme in qualcosa che strappa risate, intrattiene, coinvolge e, sì, fa sognare.

Il sogno per reinventare una realtà ostile e l’immaginario pop come culla (valoriale?) della generazione oggi trenta-quarantenne: due temi cari al regista Gabriele Mainetti che già vi ha incentrato il cortometraggio di culto Basette. Se non l’avete visto, è a questo link; una sola parola: Valerio Mastandrea nei panni di Lupin III. Qui il discorso è ampliato, mette in campo un manipolo di attori centrati, in un’antitesi tra un marmoreo e malinconico Claudio Santamaria e un più che mai luciferino e attention-whore Luca Marinelli, più la graziosa Ilenia Pastorelli che scompagina le carte come prima “credente” nell’impossibile, grazie all’anime prediletto riportato nel titolo medesimo.

Non importano (quasi) i nomi dei protagonisti, ma le loro azioni e reazioni; la sceneggiatura non si perde in chiacchiere, parte dal basso, dai perdenti e dagli sconfitti, e si dipana senza perdere colpi fino alla fine. Gli effetti speciali ci sono, ma pressoché invisibili, e là dove l’ambientazione italiana complicherebbe la verosimiglianza, interviene una gustosa verve grottesca di pura scuola alanfordiana. E c’è violenza, anche alcuni momenti splatter, adeguati alla dose di realismo della vicenda e forse chiave del suo stesso funzionamento complessivo; anche a costo, forse, di lasciarsi dietro qualche spettatore ormai abituato alla violenza iperstilizzata, e privata del tutto del sangue, in molti blockbuster di genere americani.

Sullo sfondo, mai d’intralcio per la diegesi, accenni a un presente che troppo vuole riprendere per poi niente guardare. Ma questo è materiale per critici. A noi interessa che Lo chiamavano Jeeg Robot è un film da vedere e consigliare. E di cui non ci dispiacerebbe vedere anche un sequel.


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