IL CYBERPUNK E LE GINOIDI DI CARTA


A cura di Claudio Cordella

«Sono consapevole che noi bambole siamo state create per gli scopi più biechi. Forse poter dimenticare quello che facciamo dovrebbe essere considerato una fortuna… ma in fondo i ricordi sono l’unica cosa che ci rende diverse le une dalle altre. Forse, quando sarò riuscita a metterne insieme abbastanza, mi sembrerà di vivere per davvero». ALESSANDRO BARBUCCI & BARBARA CANEPA, Vol. 1: La città gialla, in Sky Doll. Decade 00 > 10, Bao Publishing, Milano 2012, p. 56.

«Non ricordo nulla della mia vita precedente, non so che genere di persona io fossi in realtà. La vita in sé è un concetto abbastanza vago per me: se sia bella o brutta, se sia un castigo o un dono prezioso, io non lo so. Ho bisogno di uno scopo. Mi muove la fede. Perché noi scegliamo chi vogliamo essere e lo diventiamo nella bellezza o nell’orrore!». YUKITO KISHIRO, Gunnm, 1992; tr. it. Alita l’angelo della battaglia, vol. 3, Panini, Modena 1997, p. 11.

Una tendenza ad analizzare le mutazioni indotte nel corpo umano dalla tecnologia, sempre più pervasiva del nostro essere e non più solamente un entità esterna alla nostra epidermide, la riscontriamo in Occidente nelle opere di scrittori come gli statunitensi Paul Di Filippo e di Greg Bear, oppure in registi della statura del canadese David Cronenberg(01). Naturalmente i due “padrini” del cyberpunk, William Gibson e Bruce Sterling, hanno ampiamente trattato il tema del cyborg nelle loro opere. In particolare il secondo, all’interno del ciclo di Schismatrix (Matrice spezzata), parzialmente ispirato dalla space-opera di Samuel R. Delany, ci fornisce il ritratto di un Sistema Solare colonizzato seppur diviso. Gli esseri umani hanno cambiato sé stessi grazie alla tecnologia dividendosi in due fazioni: gli Shaper (Plasmatori), che ricorrono all’ingegneria genetica, e i Mechanist (Meccanisti), che al contrario impiegano degli innesti cibernetici per modificare i propri corpi. Articolato in un romanzo omonimo del 1985 e in una serie di cinque racconti, apparsi in precedenza (’82 – ’84) e riuniti in seguito nell’antologia Crystal Express (’89), l’universo della Matrice spezzata ha fornito un ottimo esempio di ibridazione tra il cyberpunk e la space-opera.

Un cyborg femminile secondo John Alfred Tan, copyright degli aventi diritto.

A parere di chi scrive, a tutt’oggi validissimo e riscontrabile anche nei romanzi e nei racconti più recenti di Paul J. McAuley, oppure nel romantico e melanconico romanzo breve Breathmoss (Muschiorespiro) di Ian R. Macleod. Lasciando da parte i deliri cinematografici di carne e metallo di Shiniya Tsukamoto, l’autore del cult in bianco e nero Tetsuo (Tetsuo: The Iron Man, 1989), ci imbattiamo nel vasto universo cartaceo dei manga. Gli improbabili cyborg di Tsukamoto, perverse e insensate creature che si muovono all’interno di rugginosi paesaggi archeo – industriali, vengono sostituiti spesso e volentieri nei fumetti made in Japan da creature ginoidi, sensuali quanto forti e determinate. Katsuhiro Ōtomo, scrittore e disegnatore del monumentale Akira (’82 – ’90), mostra già un ricco repertorio di donne forti al di fuori delle più trite convenzioni borghesi e maschiliste: le terroriste Kei e Chiyoko, oltre alla sacerdotessa esper Lady Miyako. Dobbiamo qui sottolineare come nell’Akira di Ōtomo nessun protagonista, maschio o femmina, riesca ad emergere. Né il potente Tetsuo Shima(02), creatore di un Impero della Grande Tokyo costituito da disperati, criminali e drogati all’interno delle rovine di una megalopoli in rovina, né lo stesso Akira. Quest’ultimo è un bambino diventato suo malgrado una cavia degli esperimenti del programma militare Juvenile A, in seguito posto in stato di ibernazione per decenni. Nella versione cinematografica di Akira, diretta dallo stesso Ōtomo, di questa povera cavia non rimane nient’altro che una serie di campioni congelati. Sia Testsuo che Akira sono dei simboli più che degli esseri umani in carne e ossa, qui a essere importante è unicamente Potere: il primo incarna la brama di possesso, essendo un ragazzo infelice e complessato, ricolmo di rabbia e di desiderio di rivalsa nei confronti di un mondo che l’ha emarginato, egli vuole impadronirsi della forza necessaria per potersi vendicare di tutto e di tutti. Il secondo invece, dall’aspetto di un fanciullo muto e silenzioso dagli occhi spenti, è un “vaso di Pandora” vivente, privato della propria personalità egli trattiene nel suo essere delle energie psichiche incomprensibili quanto devastanti. Nonostante la sua importanza per il cyberpunk, giapponese e non solo, non vi sono cyborg femminili in Akira. Solo Testuo si ritrova con un braccio cibernetico e va incontro a una metamorfosi finale in cui carne e acciaio si mescolano tra loro, dando vita a una ripugnante ameba bio-meccanica.

Appleseed, Deunan e Briareos in una missione dell’ESWAT. Illustrazione di Masamune Shirow. Copyright degli aventi diritto.

Invece, nella seconda metà degli anni ’80, Masamune Shirow (pseudonimo di Masanori Ota) ci racconta vicende in salsa fanta-militare / tecno-thriller con Appurushîdo (Appleseed) e Kōkaku kidōtai (Ghost in the Shell), esempi di “letteratura” disegnata nelle quali le donne sono le indiscusse protagoniste. In Appleseed, quattro i volumi pubblicati dal 1984 al 1989, Shirow ci porta in un futuro prossimo, seppure di un mondo alternativo, travagliato da mille problemi (guerre, terrorismo, controllo della tecnologia) ma ugualmente in cammino sulla lunga strada per il raggiungimento dell’utopia. La giovane Dyunan Nattsu (Deunan Nut o Knute) vive tra i ruderi di una città abbandonata con il cyborg Buriareosu Hekatonkeiresu (Briareos Hecatombcales o Hecatonchires), suo amante e mentore, amico di lungo corso dello scomparso padre della ragazza Kirl (o Carl), il quale ha fatto da tempo perdere le proprie tracce. Appresa dalla funzionaria governativa Hitomi della fine della Quinta guerra mondiale che ha sconvolto il mondo, i due, dopo lo scontro con un misterioso commando armato, decidono di trasferirsi nella città di Olympus dove ha sede la Direzione Generale Amministrativa, il nuovo governo planetario sorto dalle ceneri del vecchio ordine costituito dalle litigiose Nazioni-stato. I nemici dell’utopistica Olympus, oltre alle inevitabili divisione interne tra fazioni, sono rappresentati da potenze emergenti quali Poseidon, un cartello industriale che domina il Giappone, oppure dalla Sacra Repubblica di Mumma, una teocrazia geograficamente collocabile tra gli attuali Iran e Iraq, seguace di un credo nato in seno all’Islam da cui si è poi emancipato. Shirow, puntando molto sulle scene d’azione, sullo sfoggio di armi pesanti e sulle tecno-chiacchiere, dipana dinnanzi ai nostri occhi tutta una serie crisi nazionali e internazionali, attacchi terroristici e operazioni militari volti a contrastarli. Deunan, entrata in un corpo speciale anti-terrorismo della polizia di Olympus (ESWAT, Extra Special Weapons And Tactics), cerca di sopravvivere mentre al tempo stesso si interroga quale sia la fazione giusta da appoggiare.

Duenan e Briareos, sullo sfondo membri dell’ESWAT in esoscheletro. Illustrazione di Masamune Shirow. Copyright degli aventi diritto.

Abile soldatessa, in un mondo dove sono diffusi diversi tipi di armature da combattimento (chiamate protector o landmate), è in realtà un personaggio molto umano. Di origine afroamericana, dimostra di avere paure e di essere angustiata da ricordi dolorosi; ad esempio, la madre Gilliam è stata brutalmente assassinata a San Francisco solo perché passeggiava su un marciapiedi per soli bianchi. Deunan non è priva di un cuore ed è ancora in grado di sognare, è persino capace rimanere per qualche secondo incantata, nel bel mezzo di un’azione di polizia, davanti a un abito da sposa in esposizione. Seppur costei sia completamente fatta di carne e sangue, non lo è di sicuro l’amore della sua vita, Briaereos, il cui volto robotico (dalle assurde orecchie di coniglio) non ha più niente in comune con quello di un Homo sapiens. Shirow è molto bravo nel descriverci il profondo legame che si è instaurato tra questa giovane e un combattente esperto a cui la guerra ha strappato via il suo vecchio corpo organico, rimpiazzato da uno artificiale. Del resto persino la gran parte degli abitanti di Olympus con cui i due interagisce non è costituita da veri umani, quanto piuttosto dei cloni modificati (con impianti cibernetici probabilmente) noti come bioroidi. Non solo i vertici governativi di questa megalopoli, come la caparbia e tenace Athena Areios (l’Ispettore generale amministrativo), appartengono a questa genia di esseri sintetici ma anche due dei migliori amici di Deunan e Briaereos, quella stessa Hitomi che gli ha condotti a Olympus e il suo ragazzo Yoshitsune Miyamoto, un meccanico fanatico della tecnologia, ne fanno parte.

Le distinzioni tra naturale e artificiale tendono a diventare qualcosa di indistinto, di ineffabile. Nel corso di una missione dell’ESWAT un particolare esemplare di biorode, Artemis, viene catturato a fatica tra quel che rimane di New York e trasportato in tutta fretta ad Olympus (Point Man, vol. 2). Peccato che costei, dall’aspetto ferino agile e feroce, riesca a liberarsi e a far precipitare la navetta su cui era stata imbarcata. Individuate le sue tracce all’interno di una riserva naturale, viene braccata ancora una volta ma Artemis riesce nuovamente a dare del filo da torcere all’ESWAT (Dead Point). Nel corso della missione uno dei poliziotti viene ferito gravemente e corre il rischio di soffocare. Allora Fang Blackbone Beril, uno dei membri della squadra, tenta un salvataggio in extremis e inizia letteralmente a smontarlo sotto lo sguardo esterrefatto di un altro agente presente. Quest’ultimo, disgustato e sconvolto, giunge a chiedergli se riesca a capire la differenza tra un compagno e una macchina. Con estrema naturalezza Fang dichiara di non esserne in grado e sfida il collega a riuscirci. Inoltre, all’interno di un vero gioco di specchi e di maschere, in Appleseed ci sono degli agenti umani sotto copertura che si spacciano per bioroidi; degli infiltrati che svolgono l’indispensabile ruolo di “valvola di sicurezza” per salvaguardare gli interessi dell’umanità originaria (Dominate the Mind, vol. 2). Come da copione, da Appleseed sono state tratte diverse versioni animate: nel 1988 è dapprima la volta di un mediocre OAV per la regia di Kazuyoshi Katayama (distintosi recentemente per il film fanta-horror King of Thorn) che iper-semplifica stravolgendo trama e personaggi del fumetto. In seguito, nel 2004, fa molto meglio Shinji Aramaki con una spettacolare pellicola in CGI che seppure riscrive gli eventi del fumetto di Shirow, ha l’indubbio merito di focalizzare la propria attenzione sul rapporto umani/bioroidi. Significativamente, Deunan assume un ruolo-chiave ancora più marcato rispetto al manga mentre la madre di costei ci viene presentata come la creatrice degli abitanti sintetici di Olympus. Anzi, qui tutti i bioroidi finiscono con il diventare una specie di fratelli e di sorelle della nostra eroina. Aramaki nel 2007 ha pure realizzato un sequel, Appleseed Ex Machina, prodotto dal noto regista di film d’azione John Woo. Recentemente, nel 2011, la CGI fa ancora una volta capolino nella miniserie OAV in tredici episodi XIII Appurushīdo satinato (Appleseed XIII), diretta da Takayuki Hamana e successivamente condensata in due lungometraggi riassuntivi. Appleseed è stato il fumetto che ha portato Shirow al successo, vincitore nel 1986 del prestigioso premio Seiun Award per la fantascienza come miglior manga, eppure complessivamente risulta essere sin troppo dispersivo. Episodi in cui è la pura azione a farla da padrona, efficacemente supportata da uno stile grafico eccezionale, si alternano ad altri in cui le tematiche scientifico-filosofiche finiscono con l’essere dominanti. A tal proposito risulta invece essere maggiormente incisivo Ghost in the shell (1991), forse il più bel manga di Shirow, diventato nel ’95 uno splendido film per la regia di Mamoru Oshii(03). Motoko Kusanagi, Maggiore della Nona Sezione della polizia, è un cyborg integrale, solo il suo cervello è rimasto organico, poco più di un grumo di cellule cerebrali racchiuso in un shell (guscio) di titanio.

Ghost in the Shell 2: Man-Machine Interface, illustrazione di Masamune Shirow. Copyright degli aventi diritto.

Riprendendo l’antica dicotomia tra corpo e anima della filosofia platonica, a questo shell cibernetico si contrappone un ghost, uno spirito che contraddistingue le persone come Motoko, le quali hanno sostituito la loro corporeità biologica con un surrogato tecnologico dalle potenzialità amplificate, dai semplici robot senz’anima. Essere un cyborg per Motoko non è un fattore limitante; anzi, entrata in contatto con una sorta di vita artificiale intelligente, il Progetto 2501, alias il Marionettista, Motoko accetta di fondersi con lui per generare un ibrido, un essere mai visto prima di allora. Il processo di questa fusione cibernetica è descritto da Shirow con un mix tra filosofia, biologia e meccanica quantistica, con un piglio da fumetto didattico assai didascalico, noioso e decisamente ostico. Assai più efficace risulta essere invece il film Oshii, motivandoci le scelte di Motoko in base al suo desiderio di crescere e migliorarsi, inserendovi persino un’efficace citazione evangelica che fornisce una chiave di lettura mistico-filosofica di gran fascino. Questo regista in seguito ha realizzato un sequel di Ghost in the shell, uscito nelle sale giapponesi nel 2004, sovrabbondante sino all’eccesso di citazioni filosofiche ed effetti speciali CGI: Ghost in the shell: Inosensu (Ghost in the shell: L’attacco dei cyborg, 2004). Attualmente Ghost in the Shell è un’autentica saga multimediale, non solo Shirow stesso ha portato avanti la storia del manga classico ma non dobbiamo nemmeno scordarci i due lungometraggi di Oshii, due stagioni di una serie televisiva d’animazione, Kōkaku Kidōtai Stand Alone Complex (Ghost in the Shell: Stand Alone Complex, ’02 – ’03) e Kōkaku Kidōtai Stand Alone Complex – 2nd GIG (Ghost in the Shell: Stand Alone Complex – 2nd GIG, ’04 – ’05) dirette da Kenji Kamiyama con un relativo speciale del 2006, Kōkaku Kidōtai: Sutando Arōn Konpurekkusu Soriddo Sutēto Sosaieti (Ghost in the Shell: S.A.C. Solid State Society), oltre a un fumetto di Yu Kinutani. Inoltre è stato annunciato un prequel di questo serial TV, un OAV costituito da quattro episodi da 50 minuti ciascuno intitolato Ghost in the Shell: Arise, diretto da Kazuchika Kise. L’uscita del primo capitolo è prevista per il mese di giugno di quest’anno.

Ghost in the Shell 2: Man-Machine Interface, illustrazione di Masamune Shirow. Copyright degli aventi diritto.

Invece i sequel cartacei shirowniani, Kōkaku Kidōtai 2 Manmashīn Intāfēsu (Ghost in the Shell 2: Man-Machine Interface, 2001) e Kōkaku Kidōtai Ittengo Hyūman Erā Purosessā (Ghost in the Shell 1.5: Human-Error Processor, 2003), si distinguono per un estremo barocchismo narrativo, in cui le trame cervellotiche toccano vertici di incomprensibilità mai visti prima mentre parimenti i virtuosismi presenti nelle tavole raggiungono ineguagliate vette di bravura. Se Ghost in the Shell 1.5: Human-Error Processor è solo una mera raccolta antologica di episodi spuri, non inseriti all’interno del secondo volume della serie, al contrario Ghost in the Shell 2: Man-Machine Interface è magniloquente, pretenzioso, così contorto da essere sostanzialmente un’opera criptica, quasi si trattasse di un manuale per cyber-iniziati. Motoko, in seguito alla sua unione con il Marionettista, ha generato diverse copie-figlie di sé stessa sparse per il mondo, ognuna di esse sembra essere nell’occhio del ciclone di un complotto inimmaginabile. Infarinando il tutto con uno sciamanesimo d’impronta scintoista riletto in chiave hi-tech, Shirow cerca di seguire le peripezie di costoro ma senza riuscire a risultare minimamente convincente. Lo stupore per la dinamicità di una scena d’azione, oppure per il modo in cui viene descritto lo spazio virtuale, non riescono affatto a donare a quest’opera l’incisività che le manca. Nonostante gli indubbi meriti artistici, fatto straordinario per un manga qui gran parte delle pagine sono a colori, il risultato è tutt’altro che convincente. L’impressione complessiva è quella di essere gettati in qualche versione fumettistica di un romanzo di Alfred E. van Vogt, oppure di Philip K. Dick, in salsa mistico-cibernetica, per di più privo di un inizio e di una fine degni di questo nome. Decisamente più diretto, inizialmente privo dei barocchismi alla Shirow che faranno capolino solo gradualmente, è Gunnm (Alita l’angelo della battaglia) di Yukito Kishiro. Nel 1991, quando questo gioiellino della letteratura disegnata fa la sua comparsa nel mercato editoriale nipponico, il cyberpunk si è ormai incamminato sul suo viale del tramonto. Kishiro riesce a condensare e rivitalizzare le tematiche post-moderne espresse nel precedente decennio riguardanti il rapporto mente/corpo, la differenza tra artificiale e naturale, all’influsso delle rivoluzioni tecnologiche sulla società. La protagonista di Alita è Gally, una cyborg che vive in un mondo desolato, violento e privo di speranza. Il nome Alita, con cui i lettori nostrani hanno imparato a conoscere quest’eroina cibernetica, è un’invenzione della casa editrice statunitense Viz American per la sua edizione in lingua inglese. Molto probabilmente si tratta della citazione di un primordiale film di sci-fi del 1924, Aelita (Aelita regina di Marte) del russo Yakov Protazanov, a sua volta tratto dal romanzo omonimo di Aleksej Nikolaevič Tolstoj. In seguito, la trasformazione di Gally in Alita è stata mantenuta anche nell’adattamento italiano. Alita vive in un’immensa quanto squallida megalopoli, la Città Discarica, così chiamata perché vi si ammassano le tonnellate di rifiuti prodotte da Salem, una terra utopistica sospesa in mezzo alle nuvole. Sulla superficie terrestre delle apposite fabbriche, le Factory, producono i beni di consumo necessari ai salemiti, i quali opprimono con leggi ingiuste gli abitanti della superficie, disprezzati e asserviti. In realtà, come apprendiamo dalla lettura di Alita e del suo sequel Gunnm Last Order (Alita The Last Order), sia Salem che la Città Discarica facevano parte di un unico ascensore orbitale (Jerusalem), a sua volta componente importante di una mega-architettura cosmica (un anello spaziale attorno al mondo). Al servizio di questi padroni onnipotenti troviamo dei grotteschi cyborg simili a cilindri, i Deckman, assieme a dei cacciatori di taglie prezzolati, gli Hunter Warrior. Questi ultimi, in assenza di un corpo di polizia, mantengono l’ordine costituito. L’unica pena prevista per i delitti commessi, indipendentemente dalla loro gravità, è la morte. Alita, proprio come un qualsiasi rifiuto, viene ritrovata tra i rottami della Discarica da un dottore specializzato nella cura dei corpi cyborg, il cyber-dottore Daisuke Ido, che decide di ricostruirla. Quest’ultimo, un esule di Salem che nasconde un lato sadico e violento cui dà sfogo lavorando part-time come Hunter Warrior, sulle prime vorrebbe trasformare Alita in una specie di bambola. La giovane però, pur essendosi risvegliata da una sorta di ibernazione plurisecolare senza memoria, dimostra di conoscere istintivamente un’arte marziale del pianeta Marte, il Panzer Kunst, ed è risoluta a diventare una cacciatrice di taglie perché, come lei stessa afferma subito nel primo volume: «Il solo essere salvata non può dare la felicità. Sentirsi vivi è un’altra cosa».

Illustrazione di Yukito Kishiro. Copyright degli aventi diritto.

Una trama semplice, immediata, si accompagna a una storia cupa, pregna di una sanguinosa ultra-violenza urbana degna di A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1962) di Anthony Burgess, il celebre romanzo che ispirò a Stanley Kubrick la sua altrettanto nerissima distopia di celluloide. Nel corso di queste sue prime avventure Alita s’innamora di Yugo, un piccolo delinquente che sogna di poter raggiungere Salem; ma, dopo la sua tragica morte, abbandona la casa di Ido e si dedica anima e corpo al Motorball, pericoloso sport su pattini per soli cyborg. A questo punto Kishiro pone una sorta di cesura tra il ciclo narrativo iniziale e la seconda metà della serie originale. Zapan, ex-Hunter Warrior che ha scoperto i crimini di Yugo e ha cercato per vendetta di costringere Alita a ucciderlo, diventa una mostro tecnologico, uccide Ido e in preda a una furia incontenibile devasta mezza Discarica. La nostra eroina riuscirà ad avere ragione di lui ma alla fine si troverà privata di ogni cosa. Ido è morto e può solo confidare nel folle scienziato Desty Nova, l’esule salemita responsabile della mutazione di Zapan, che si è allontanato dopo averle promesso di resuscitarle il “padre adottivo”. Il corpo di Alita è a pezzi ma, dato che per uccidere il mostro ha dovuto usare dei proiettili speciali sparati da una vecchia pistola, ha violato le leggi di Salem. Condannata a morte, viene salvata in extremis a condizione che diventi un agente sintonizzata di superficie al servizio del Ground Investigation Bureau (G. I. B.). Lo scenario urbano dei primi episodi viene abbandonato in favore di un deserto post-apocalittico alla Mad Max, dove ci si può imbattere nelle rovine di antiche metropoli oppure in guerriglieri motorizzati. D’ora in poi la cyber-eroina percorrerà lande desolate, alla ricerca di Nova e di Ido, scontrandosi contro i Barjack, un’armata rivoluzionaria che sogna di poter abbattere Salem. Dopo mille traversie Alita, che ha assistito alla sconfitta dei Barjack si illude di aver sconfitto definitivamente Nova, cadendo così in una trappola ordita da proprio da costui. Trasportata su Salem, finirà per sacrificarsi per il bene comune fondendo il suo nuovo corpo, l’Imaginos, con il gancio orbitale che sostiene questa città aerea. Il responsabile di quest’ultima crisi non è altri che lo stesso Nova. Richiamato in patria, comincia a divulgare il “segreto di Salem”, ovverosia che i suoi abitanti hanno un corpo umano con un cervello artificiale. Il caos che ne deriva causa un attacco di follia suicida in Melchisedeck, l’antica Intelligenza Artificiale che ha creato la Discarica e Salem. Solo l’intervento di Alita, che ha trasformato con la forza della sua immaginazione l’ascensore spaziale in un immenso albero, riesce a evitare per un soffio la catastrofe. Nell’epilogo Nova, affetto da demenza e regredito a uno stadio infantile, riesce nei suoi intermezzi di lucidità a recuperare tracce del DNA della coraggiosa cyborg e a farla rivivere.

Illustrazione di Yukito Kishiro, Alita e la ribellione dei Barjack. Copyright degli aventi diritto.

Insoddisfatto di questo finale, Kishiro ha deciso di cancellarlo dando così vita alla successiva serie Gunnm Last Order, tutt’ora in corso di pubblicazione. Anche qui Alita raggiunge Salem ma vi trova una situazione di genuina distopia, ai limiti del fanta-horror. I giovani salemiti, ancora interamente umani, lottano contro la popolazione adulta, operata e con un chip al posto del cervello. In particolare sembrano essere i maschi adulti di Salem, ben decisi a spazzar via bambini e adolescenti, a esser in preda a una sanguinosa furia omicida senza limiti. Al contrario le donne sembrano essere molto più propense alla reciproca collaborazione e alla ricostruzione. Al tempo stesso, i robot superstiti del M. I. B. (Medical Investigation Bureau) continuano il genocidio di tutti i cittadini, indifferentemente a quale classe d’età appartengo, poiché tutti colpevoli ai loro occhi di esser venuti a conoscenza dell’oscuro segreto della loro città. A parte la metafora sull’omologazione prodotta dalla società, che annichilisce e cancella l’individuo in nome del conformismo, ritroviamo qui i toni splatter e le mostruosità cibernetiche degli esordi. Alita intende far resuscitare l’amica Lou Collins, una salemita del G.I.B. colpevole di aver fraternizzato con lei. Sale assieme a Nova sull’ascensore orbitale e giunge nello spazio esterno dominato da Ladder (la Commissione arbitrale dell’alleanza del Sistema solare), presieduta dal potente Aga M’Badi, detto Trinidad a causa dei tre chip che ha impiantato nel suo cranio. Kishiro ci porta per mano in un vasto universo iper-tecnologico che ricorda quello della Matrice spezzata di Sterling: anche qui l’umanità si è diffusa tra pianeti, lune e asteroidi del nostro Sistema solare, impiegando la tecnologia per cambiare se stessa. Grazie alla nano-tecnologia gli esseri umani non invecchiano e sono diventati praticamente immortali, ma proprio per questo nascere è diventato illegale. Solo la regina Limeira del Congresso monarchico di Marte, la patria di Alita, crede nel valore di una esistenza umana posta all’interno dell’antico ciclo della nascita e della morte. Alleatasi con un abilissimo hacker, Ping Wu, nascostisi per secoli da Ladder in un regno dei robot posto all’interno dell’ascensore spaziale, Alita incomincia a mettere in atto il suo piano per salvare Lou. Costruito pazientemente, tassello dopo tassello, anno dopo anno, questo corpus narrativo è cresciuto come la sua protagonista, nel corso del tempo sempre più di sé e in possesso di un maggior numero di ricordi del suo passato.

Imaginos Body di Alita. Copyright degli aventi diritto.

Il guaio è che Kishiro, come avviene non di rado ai romanzieri e agli sceneggiatori di fumetti, si è ormai perso nei meandri del suo universo immaginario. L’ennesima diversione narrativa ci porta nel mondo post-apocalittico dell’Impact Winter, quando un asteroide colpì la Terra, mutandone il clima e trasformandola in una landa ghiacciata. L’autore si diverte a evocare metropoli congelate, mutanti e giunge a tirare in ballo anche i vampiri (qui chiamati Cognito). Queste storie post-catastrofe lasciano da parte Alita, che assiste come mera spettatrice alla simulazione computerizzata degli avvenimenti del passato, avendo piuttosto come protagonista la vampira Vilma Fachiri. È a lei che in vecchiaia il leader Arthur Farrell, fautore della colonizzazione spaziale, affida il compito, il Last Order del titolo, di prendersi cura dell’umanità. L’anziano politico, colui che ha permesso la creazione di Star City quale fulcro dell’espansione cosmica, quel medesimo centro urbano che in seguito degenerò sino a diventare la degradata Città Discarica, è prossimo alla morte e inizia ad avere dei dubbi sulla bontà del suo operato. Consapevole di non essere perfetto e che Melchizedec è solo una macchina, consegna a Vilma un programma in grado di distruggere il computer. Dopo questo flasback, compiendo un discutibile restyling fumettistico, Kishiro ha trasformato The Last Order in uno shonen manga, ovverosia in un fumetto per ragazzi. La trovata del grande torneo di arti marziali, qui chiamato Z.O.T.T. (Zenith of Things Tournament), richiama alla memoria gli analoghi scontri tra diversi abili combattenti, tutti cool e portatori di diverse filosofie di vita, già visti in passato in classici come Dragon Ball e I cavalieri dello zodiaco. Il risultato, pur non mancando di alcuni momenti interessanti e di qualche scena toccante, complessivamente cozza violentemente con la maturità delle passate avventure di questa cyborg. Allineando piuttosto Alita con gli innumerevoli albi per adolescenti editi in Giappone, tutti imperniati sulle continue lotte tra guerrieri dai poteri super-eroistici, dal carattere individuale e bizzarro, dotati di grande forza d’animo. Un passaggio, per così dire, dall’originalità individuale all’anonimato della folla, da cui The Last Order si distingue solo per il suo essere un noto brand nel mercato del fantastico. Kishiro, il quale ha letteralmente inondato il suo manga di deliranti tecno-chiacchiere a base di farneticanti ragionamenti imperniati sulla meccanica quantistica (tirata in ballo ogni piè sospinto per giustificare qualsiasi prodigio tecnologico inverosimile e qualunque impossibile “colpo speciale”), sembra anche aver mutato il suo rapporto iniziale con la dualità mente / corpo. Se da principio Alita aveva un cervello organico contenuto in un involucro meccanico, che cambiava spesso e volentieri, in questi ultimi volumi ha finito con il perdere anche quest’ultimo residuo biologico, arrivando a morire e a rinascere completamente. Naturalmente acquisendo nuove, incredibili, capacità. Il suo percorso, per molti, aspetti sembra essere assai simile a quello della Motoko di Shirow, la quale però conserva un cerebro umano anche al termine della sua fusione con il Marionettista. Seppur, bisogna ammetterlo, è ben difficile che le sue copie-figlie abbiamo la benché minima traccia di un DNA umano nei loro corpi.

Yukito Kishiro, Alita The Last Order. Copyright degli aventi diritto.

Arrivati a questo punto non possiamo non citare Sky Doll, un successo internazionale della creatività made in Italy, seppur originariamente pubblicato in Francia dalla Soleil Productions; scritto, disegnato e colorato da Alessandro Barbucci e Barbara Canepa. Attualmente è disponibile, a cura della Bao Publishing, un mastodontico tomo onnicomprensivo che raccoglie tutto il materiale sinora edito, arricchito per di più da diverse tavole realizzate da artisti di talento quale omaggio a Sky Doll. Dal punto di vista iconografico questo duo creativo, che avevano già dato il loro apporto a serie di successo come Monster Allergy e W.I.T.C.H., regala ai proprio lettori un capolavoro della letteratura disegnata che reinterpreta in chiave adulta gli stilemi grafici “disneyani” ibridati con quelli dei manga giapponesi. Strizzando l’occhio alla sci-fi d’argomento religioso, come Dune di Frank Herbert, il duo Barbucci & Canepa ci racconta di una creatura sintetica, Noa, costretta a vivere in una repressiva quanto ipocrita teocrazia. Papathea è un mondo nel quale gli aspetti peggiori della religione, il desiderio di controllo sulle masse, il miracolistico sposato con il sensazionalismo e lo show-business, sono predominanti. Un clero corrotto, che si richiama a quello cattolico ma che in realtà ben si presta a raffigurare simbolicamente qualsivoglia gerarchia religiosa avida di potere, in passato ha attuato un “ardito esperimento marketing”. Due sorelle, Agape e Ludovica, ciascuna rappresentante di un diverso aspetto della fede degli abitanti di Papathea, la prima di quello spirituale e la seconda di quello carnale, sono state entrambe scelte come papesse. Tale dualità però, portando delle divisioni all’interno di un rigido monoteismo, viene alla fine considerata pericolosa dagli alti prelati. Agape viene sconsacrata, il suo culto proibito e la giovane sparisce dalla scena pubblica. Ludovica rimane l’unica detentrice del potere ma è continuamente minacciata dai seguaci della sorella, i ribelli Agapiani. Questi ultimi pur se perseguitati e trattati alla stregua di eretici, provocano disordini e danno del filo da torcere alle forze dell’ordine legittimiste in nome della loro Nuova Chiesa dell’Immacolata Agape. Ludovica, per mantenere saldo il controllo sulla cittadinanza, deve per forza di cose affidarsi alla repressione poliziesca e a periodiche cerimonie che vengono trasmesse in diretta televisiva: miracoli accuratamente ricostruiti in appositi studi TV, con tanto di scenografie paradisiache e finti angeli. Seguiti dal vivo da fedeli ossessi, che smaniano per poter vedere le illusorie stimmate di Ludovica e per poter essere arsi vivi dalla “luce divina”. Sommo coreografo di questi spettacolini illusori, nati da una santa alleanza tra teocrazia e mass-media, è il Miracolatore. Un misterioso individuo, molto probabilmente un esper, di cui la papessa è follemente innamorata senza esserne affatto ricambiata. Costui si rivolge a Noa chiamandola figlia, tresca con gli Agapiani ed è legatissimo al ricordo di Agape, odiata al contrario da Ludovica che ne rivendica con orgoglio l’assassinio.

Come si può ben intuire, un mondo del genere non promuove né i diritti umani, né tanto meno lotta contro le discriminazioni. Figuriamoci poi se si parla di Intelligenze Artificiali. Le bambole cibernetiche come Noa sono trattate alla stregua di oggetti senz’anima, anzi il clero dichiara che usare queste macchine antropomorfe per il proprio piacere non costituisce peccato. Le ginoidi, trattate come schiave sessuali prive di raziocinio e di parola, simboleggiano la condizione femminile. Se in Ghost in the Shell e in Alita ci si interroga sulla crepuscolare linea di confine tra uomo e artefatto tecnologico, in Sky Doll sono dei manichini hi-tech a farci riflettere sull’oggettivazione del corpo della donna, sulla riduzione di metà del genere umano a mero oggetto sessuale. Il riscatto di Noa, in fuga dal sexy-autolavaggio Heaven spaceship wash, gestito da un viscido alieno urlante, non è tanto un riscatto dei cyborg quanto piuttosto di tutte le donne oppresse. La nostra eroina, un’umile serva controllata dal punto di vista sia fisico che mentale dal proprio padrone, che possiede la sua chiave di avviamento (04), si associa in maniera rocambolesca a una missione diplomatica diretta al pianeta Aqua. D’altro canto Noa non ha molta scelta, già con la mente menomata da un inibitore di ricordi, è consapevole che il suo brutale signore ha intenzione di riprogrammarla completamente e di cancellarle tutta la memoria. Una sorta di condanna a morte che avrebbe annichilito totalmente la sua personalità, sin da principio assai diversa da quella delle sue colleghe robotiche. Effettivamente, Noa pare essere non solo più estrosa delle sue colleghe robotiche ma anche portata all’iniziativa individuale e all’introspezione. Lungo il viaggioper Aqua, inizia progressivamente a essere perseguitata da strane visioni e a manifestare inconsuete capacità. In seguito, dopo il ritorno su Papathea, Noa mostrerà di avere persino poteri taumaturgici, riportando in vita un amico ferito a morte nel corso di un attacco terroristico. La saga di Sky Doll non si è ancora conclusa ma è certo che il proseguo della vicenda, comprendente attualmente tre volumi più uno speciale numero zero (Doll’s factory) e l’extra Heaven Dolls, ci porterà a svelare quei segreti, non privi di risvolti misticheggianti, racchiusi nelle pieghe della psiche e delle membra di plastica di Noa che la legano ad Agape, a Ludovica e al Miracolatore. Come ci ricorda Hideaki Anno in Neon Genesis Evangelion, la differenza tra uomini e bambole è sottile come un filo. Ed è proprio la natura di fedele simulacro dell’umanità, in particolar modo di quei suoi rappresentanti che sono emarginati, offesi e vessati in mille maniere diverse, che rappresenta l’elemento di maggior fascino dei cyborg femminili.

Sky Doll di Alessandro Barbucci e Barbara Canepa. Copyright degli aventi diritto.

 Note

(01) Si veda Cronenberg, il cantore della carne mutante, link http://www.fantasyplanet.it/2011/10/10/cronenberg_il-cantore-della-carne-mutante/

(02) Da non confondere con il protagonista della pellicola di Tsukamoto. Entrambi i personaggi mostrano comunque una psiche disturbata, in preda da pulsioni incontrollabili e autodistruttive, mentre il loro corpo è sede di ripugnanti quanto inarrestabili mutazioni.

(03) Sulla sfaccettata arte di Oshii, si veda: Mamoru Oshii: tra umorismo e cyberpunk,http://www.fantasyplanet.it/2011/03/23/mamoru-oshii-tra-umorismo-e-cyberpunk/

(04) Noa dev’essere ricaricata con una chiave che va inserita nella sua spina dorsale ogni 33 ore. Quando si associa clandestinamente alla missione su Aqua dei diplomatici Roy e Jahu, approfittando di un momento di confusione all’Heaven, fa in modo di averla con sé. Senza ricarica, le bambole cibernetiche in uso su Papathea si trasformano in manichini inerti privi di vita. In Doll’s factory, mostrando una fiera autodeterminazione, Noa decide che in futuro sceglierà da sola a chi consegnare la sua chiave: «La mia chiave… e così devo essere ricaricata ogni 33 ore. Per questo, però, devo appartenere a qualcuno. Quel qualcuno da oggi, lo sceglierò io». BARBUCCI & CANEPA, Vol. 0: Doll’s factory, in Sky Doll. Decade, p. 173. Sarà Roy (Vol.2: Acqua, in Sky Doll. Decade, p. 65) che ricaricherà la ginoide per la prima volta dopo la sua fuga, mostrando un legame di affetto/amicizia/amore che si rafforzerà progressivamente nel corso del tempo. È proprio quest’ultimo che la nostra eroina salva da morte certa, nel corso di un assalto di un commando di Agapiani armati.


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