Hallyu – parte seconda


di Serena Barbacetto

2012: l’anno dei viaggi nel tempo

Come accennato nella prima parte di questo articolo sull’Hallyu (la cosiddetta “Onda coreana”), il 2012 per le produzioni made in Seul non è l’anno dell’Apocalisse, ma quello dei viaggi nel tempo (in parte per i ritardi di produzione di alcune serie, in parte per moda e influenza reciproca).

La scelta del tema dei viaggi nel tempo cerca di mettere insieme l’enorme popolarità dei drama storici o sageuk (epici, grandiosi, drammatici e ricchi d’azione) con l’ironia e la freschezza dei drama ambientati in epoca contemporanea. Se vogliamo ricercare i motivi di questo successo, è inutile andare a ricercarli nel budget: pur esistendo drama da mezzo milione di dollari a puntata, trattasi di cifre comunque pari a un decimo di quello che la HBO americana è in grado d’investire per una serie fantasy come Game of Thrones.

Se proprio vogliamo individuare una “formula alchemica”, fra i suoi ingredienti vi sono indubbiamente la cura dedicata all’ideazione dei personaggi e l’imprevedibilità delle trame: croce e delizia degli appassionati, l’empatia che si crea con i protagonisti in scena è in genere il movente fondamentale per seguire un drama. A differenza del plot tipico di un film di genere prodotto negli Stati Uniti, non vi sono ruoli preconfezionati nei quali i personaggi debbano incasellarsi e rimanere: come accade nel mondo reale, anche i “cattivi” hanno le loro buone ragioni (finanche intenzioni), e i “buoni” le loro cattive abitudini. Il personaggio più meritevole può non aggiudicarsi l’amata/o, la damigella in pericolo può non essere salvata, l’ingiustizia può non essere sanata, e tutto può andare a rotoli anche semplicemente perché il destino è cinico e baro: una strategia può non funzionare e una soluzione può non essere trovata, o esser trovata troppo tardi per salvare la situazione. Non è scritto da nessuna parte che l’eroe/eroina di un drama debba trionfare alla fine della vicenda, o anche soltanto sopravvivere: il protagonista di un drama può fare la fine di Sean Bean (leader del clan Stark in “Game of Thrones”), o anche peggio. Questa intrinseca imprevedibilità tiene gli spettatori incollati agli schermi: le trame sono spesso intricate, e si sviluppano dai credits iniziali a quelli finali senza ricorrere a una struttura narrativa “a puntate” che permetta di saltare scene o interi episodi senza perdersi sviluppi sostanziali. Allo spettatore è richiesto un certo impegno: chiamato a notare dettagli e indizi ben nascosti o a fare mille supposizioni (regolarmente smentite) su “cosa accadrà dopo” un determinato cliffhanger, deve spesso sciogliere intrecci complessi e stratificati, ricchi di colpi di scena.

Le storie dei drama sono storie universali, che hanno il coraggio di mettere in scena i sentimenti e i moventi più profondi dell’essere umano, ma anche gli ideali più grandi in grado di indurlo ad agire per l’interesse collettivo: in altre parole, sanno essere “epiche”, anche soltanto nel dettaglio di un gesto, uno sguardo, una linea di dialogo. L’amore raramente è gridato, ma rappresentato in scena con profondità e delicatezza; l’odio non nasce dal nulla, e quando si scatena è una forza in grado di muovere intere nazioni; l’attrazione sessuale è elettricità nell’aria, più che prodezza acrobatica esibita dinanzi alla telecamera. L’affetto che il pubblico prova per i personaggi meglio costruiti e ritratti in scena si concretizza spesso nella produzione in tutto il mondo di migliaia di fanart (illustrazioni a tema), fan-fiction (racconti dedicati alla serie, che talvolta diventano interi romanzi), video musicali, gif, fumetti, vignette ironiche e quant’altro, un po’ come accade per i manga giapponesi o le grandi saghe letterarie anglosassoni. Sono proprio questi gli elementi che hanno permesso ai drama coreani di infrangere la barriera di una lingua che suona ben poco familiare, un tipo di recitazione che (soprattutto nel registro comico, rabbioso o iper-drammatico) non sempre coincide con il nostro, un mondo culturale tutto da esplorare e una Storia ignota ai più.

 Nonostante i ritardi nell’avvio del proprio progetto che doveva inaugurare il filone (“Faith”), è stata la SBS ad “aprire le danze”, mandando in onda nella primavera di quest’anno una commedia romantica di successo basata sui viaggi avanti e indietro nel tempo, “Rooftop Prince” (“Il Principe in cima al tetto”).

L’intreccio è piuttosto complesso, e sceglie di attingere al tema delle reincarnazioni, mettendo in scena lo stesso quartetto di personaggi principali sia nel passato sia nel presente: indagando sulla misteriosa morte della giovane sposa, un sovrano del diciottesimo secolo (Park Yu Chun, attore e cantante) sfugge a un tentativo di assassinio e finisce nel nostro tempo “piovendo” sul tetto a terrazza della protagonista (Han Ji Min) assieme a tre fedeli e capaci attendenti, per ritrovare nel futuro le reincarnazioni di alcune persone che gli erano vicine a corte. Ne scaturisce una trama “fusion” che attinge a varie fonti, dal sageuk classico (drama storico d’ambientazione cortigiana) al “chaebol drama” (ambientato nel mondo dell’alta finanza e delle multinazionali), ma che si presenta soprattutto come una commedia romantica ironica e ricca di siparietti comici, meno drammatica e cruenta (inizio e finale a parte) rispetto alle tre serie successive.

 “Ospite” della Seul del 2012 è anche Jin Hyun Woo (attore e musicista) nel ruolo del protagonista di “Queen In-Hyun’s Man” (“L’uomo della regina In-Hyun”, trasmesso a fine primavera dal canale via cavo tvN), un drama ricco d’azione, intrighi politici e romanticismo, con una coppia di protagonisti anticonvenzionale e molto affiatata sullo schermo.

Un funzionario di corte colto, brillante e abile con la spada si ritrova a viaggiare avanti e indietro dal diciassettesimo secolo grazie a un talismano che lo teletrasporta nel futuro ogniqualvolta rischia di essere ucciso, finendo nel bel mezzo delle riprese di un drama storico che mette in scena le stesse vicende a lui note; imbattutosi nell’attrice protagonista e rivelatole il proprio segreto, impara con creatività e ingegno a cavarsela anche nel mondo del ventunesimo secolo.

Pur non essendo stato trasmesso da uno dei tre giganti televisivi nazionali, “Queen In-Hyun’s Man” si è guadagnato un ampio pubblico e delle critiche positive, evitando di cadere in certi cliché tipici dei drama asiatici per famiglie e rivelandosi un prodotto accattivante, anticonvenzionale e adatto anche a un pubblico “smaliziato”.

Uomo altrettanto abile e idealista è il Dottor Jin (interpretato da Song Seung Heon) di “Time Slip Dr Jin”, un affermato neurochirurgo proiettato indietro nel tempo di centocinquant’anni, nel bel mezzo degli intrighi politici, delle guerre e delle epidemie della tarda dinastia Joseon. La storia è liberamente ispirata al manga “Jin” di Murakami Motoka, così come quella del precedente adattamento televisivo giapponese, e fra i protagonisti spiccano attori veterani come Lee Beom Soo (soprannominato “Il piccolo gigante di Chungmuro”, l’equivalente coreano di Hollywood) accanto a giovani star come Hero Jaejoong e Park Min Young.

“Time Slip Dr Jin” è molto più centrato sulla professione medica del protagonista rispetto al successivo “Faith” (drama che avrebbe dovuto inaugurare il filone dei viaggi nel tempo, ma che essendo andato in onda con tre anni di ritardo si è visto imporre pesanti modifiche allo script per evitare sovrapposizioni); l’elemento del viaggio nel tempo rimane in secondo piano, rispetto alle prodezze d’un medico costretto ad arrangiarsi come può per salvare delle vite in un’epoca in cui una febbre può essere letale e un’epidemia di colera può spazzare via un’intera città. Il telefilm è stato trasmesso all’inizio dell’estate dalla MBC ed esteso da 20 a 22 episodi, con ascolti nella media; i recensori non hanno avuto parole d’elogio per la trama, mettendone in luce le inconsistenze e i misteri lasciati irrisolti.

Grande è stata invece l’attesa per il ritorno in scena del “Principe” menzionato in precedenza, il giovane ma affermatissimo Lee Min Ho, protagonista del precedente City Hunter e di altri drama trasmessi dalle tv di mezzo mondo. Accettando il ruolo di protagonista del drama “Faith” (trasmesso dalla SBS fra la fine dell’estate e l’autunno di quest’anno), l’attore si è cimentato nel suo primo sageuk (telefilm di ambientazione storica) interpretando una figura miliare della storia dell’Asia Orientale, il leggendario generale Choi Young, il cui ritratto giovanile presentato dall’autrice Song Ji Na ha sfidato apertamente le aspettative del pubblico, offrendone un’immagine complessa, sfaccettata e per molti aspetti sorprendente.

L’attore protagonista è stato affiancato da una sunbae (collega più grande d’età) del calibro di Kim Hee Sun, da un ex-bambino prodigio come Ryu Deok Hwan, da un attore e modello famoso come Philip Lee, da un piccolo portento come Choi Wong Hong e da note guest star, dando vita a una storia corale ricca di personaggi (principali o secondari) ben caratterizzati.

La trama include elementi fantascientifici e fantasy, con riferimenti cinematografici a volte esplicitati per bocca della stessa co-protagonista, e gioca sull’incomprensibilità e sul fraintendimento reciproco di due mondi: la “magia” scientifica del futuro è stupefacente per chi non ne fa parte tanto quanto lo sono i super-poteri psichici e la medicina olistica del secondo, così come appaiono insormontabili le differenze linguistiche e culturali, trattate con intelligenza e ironia.

Proiettato avanti nel tempo dalla Goryeo del quattordicesimo secolo alla Seul irta di grattacieli di oggi, il grande condottiero (convinto di essere approdato nel mondo celeste) si mette in cerca di un “dottore divino” in grado di salvare la regina Noguk (Park Se Young), principessa della dinastia Yuan e preziosa pedina politica nella negoziazione con l’Impero cinese, gravemente ferita in un attentato: finisce per rapire una giovane donna, abile chirurgo, trascinandola con sé nel passato attraverso un wormhole.

Song Ji Na ci presenta all’inizio due personaggi in apparenza del tutto incompatibili: una viziata, capricciosa e materialista “principessa di Gangnam”, fermamente convinta di trovarsi sul set di un film o quantomeno in mezzo a un branco di pazzi, e la persona che l’ha rapita e maltrattata , un guerriero invincibile, implacabile e con un grande senso dell’onore, ma allo stesso apatico, depresso e dalle insane aspirazioni suicide. L’una mette al centro di tutto se stessa ed è attaccata alla vita con le unghie e con i denti, mentre l’altro è stanco di tutto, e cerca soltanto un modo per porre fine alla propria agonia, sebbene sia destinato a plasmare la storia dell’intero continente.

Nonostante i ritardi nell’avvio delle riprese, il budget ridimensionato rispetto alle previsioni iniziali e una regia/editing non all’altezza degli attori e dello script in alcune scene (in parte per via dei cambiamenti in corso d’opera e del live shooting), l’imprevedibile sceneggiatrice ci ha lasciato dialoghi brillanti e una storia ricca di dettagli, introspezione e stimoli alla riflessione, ma anche una delle storie d’amore più belle degli ultimi anni, che cresce pian piano e si radica profondamente nello spettatore con il dipanarsi della vicenda. La scelta di non ricadere nei tipici cliché del melodrama (per una lista dei quali vi rimando a questo divertente articolo in due parti) e l’immagine spiazzante dei due protagonisti offerta all’inizio non ha ripagato l’autrice in termini di ascolti sulla SBS, ma le ha guadagnato schiere di appassionati fra coloro che si sono lasciati prendere per mano dalla storia, i quali sono adesso in trepidante attesa del romanzo prossimamente in uscita.

 

Prima parte dell’articolo: http://www.fantasyplanet.it/2013/01/21/faith/

 

http://seoulbeats.com/2012/03/why-are-sageuks-such-ratings-monsters/

http://saryre.blogspot.it/2012/04/asian-drama-cliches-aka-how-to-make.html

 


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