Hallyu – parte prima


di Serena Barbacetto

Preparatevi… Sta arrivando l’Onda!

 A Hollywood il 2012 è per l’industria dell’intrattenimento l’anno dell’Apocalisse: gli sceneggiatori attingono a piene mani alla fine del mondo, mentre una certa fetta di spettatori comincia ad auspicare che essa arrivi davvero, ponendo fine all’agonia delle trame riciclate e degli n-mila sequel sempre più scadenti.

Recitando il mantra del “mai più cinema, mai più TV”, dando fuoco alla matrice del biglietto di una proiezione 3D e usandola per accendere un cero sull’altare delle produzioni indipendenti, la fetta di pubblico occidentale più smaliziata cerca di riaversi dopo l’ennesimo mito crollato e l’ennesima serie naufragata o interrotta, chiedendosi se mettere di nuovo mano al portafoglio e perpetuare una coazione a ripetere che appare sempre più senza via d’uscita. I budget spesso superiori ai duecento milioni di dollari non garantiscono agli spettatori di trovarsi dinanzi (oltre agli effetti speciali) anche una storia, o almeno dei personaggi credibili: tutto il contrario, apparentemente. Le poche mega-produzioni nascondono una situazione preoccupante per il mercato cinematografico e televisivo hollywoodiano, sia in termini quantitativi sia qualitativi, e la crisi non è attribuibile soltanto alla pirateria. Per un film di genere fantastico degli elevati costi di produzione significano nella maggior parte dei casi una scarsa propensione a rischiare e una “rincorsa verso il basso” delle sceneggiature, con il risultato di mettere sul mercato prodotti visivamente d’impatto, ma emotivamente e intellettualmente poco coinvolgenti.

Tuttavia, dalla parte opposta del mondo si respira un’aria di tempesta ben diversa. I numeri del settore cavalcano da anni un’onda che ha ormai travolto metà del globo: dopo l’abbattersi dello tsunami giapponese e il sollevarsi della marea cinese, taiwanese e di Hong Kong, sta infatti spazzando le coste di tutti i continenti la cosiddetta “Hallyu” (한류o韓流, “Corrente/Ondata coreana”, o “Korean Wave”, termine coniato nel 1999 dai media cinesi per descrivere il fenomeno). Nel secondo decennio di questo secolo, la Corea del Sud ha tutte le carte in regola per diventare il “nuovo Giappone”; lo stesso Impero nipponico è ormai vittima (consenziente) dell’Onda. Taiwan e la Cina continentale (forte del recente varo del piano quinquennale per la promozione dell’industria culturale e cinematografica) seguono a ruota, ma cedendo anch’essi importanti fette del proprio mercato interno agli agguerritissimi vicini di casa. Persino Bollywood rischia di perdere terreno in patria.

I numeri sono quelli di una tendenza globale, e soltanto due continenti appaiono tuttora immuni (o quasi) al K-virus: l’Europa (esclusa quella dell’Est, già conquistata) e l’Africa Subsahariana, occidentalista per vocazione l’una e monopolizzata dalle produzioni nigeriane l’altra. Un giornalista di Foreign Policy ha fatto notare che “l’Occidente di fatto è in ritardo per il party”, mentre Obama ha dichiarato che “non c’è da meravigliarsi che tanta gente in tutto il mondo sia stata catturata dalla Korean Wave, l’Hallyu”.

Al pari di politici, economisti ed esperti di relazioni internazionali, i cineasti occidentali e in particolar modo statunitensi non sono ignari della portata del fenomeno. Uno dei film di fantascienza più attesi della prossima stagione (“Cloud Atlas”) è ambientato in epoche e luoghi diversi, compresa la Corea del 2144: fra i tanti ruoli ricoperti nel film, Tom Hanks compare anche sullo schermo del clone Sonmi-451 come attore di uno show trasmesso in Corea su proiettori portatili. Come sempre, i fratelli Wachowski hanno le antenne sintonizzate sui fenomeni culturali che vengono dall’Estremo Oriente, e li assimilano e citano nelle loro opere in un implicito gioco di specchi.

I due arieti che hanno aperto la strada a questo recente spostamento dell’attenzione pubblica mondiale verso i prodotti culturali dell’Estremo Oriente sono la musica (k-pop e k-rock in primis; vedasi ad esempio l’esibizione delle Girls’ Generation al Letterman Show e il sorprendente fenomeno globale targato Psy, “Gangnam Style”) e i “drama” coreani.

I drama sono telefilm prodotti per i tre giganti televisivi della madrepatria (KBS, SBS e MBC) e per alcune reti via cavo, lunghi in genere dalle 10-11 puntate alle 25 (da un minimo di due, l’equivalente di un film, a un massimo di cinquanta e più) di 45’ o 1 ora ciascuna e talvolta rinnovati per più stagioni. Con un’ardita operazione di disvelamento, è proprio un drama (“King of dramas”) ad aver messo di recente le carte in tavola, alludendo all’enorme giro d’affari legato al settore, che ha avuto un vero e proprio boom negli ultimi dieci anni: ci sono star dell’Hallyu che valgono molto più oro di quello che pesano, anche senza contare l’indotto economico (stimato in svariati miliardi di dollari l’anno), il ritorno d’immagine e le decine di migliaia di posti di lavoro che creano.

Qual è il segreto di questo fenomeno? Secondo M. J. Russell di “Foreign Policy” il segreto sta nel fatto che “la cultura pop contemporanea americana colpisce il mondo per il suo essere cinica e spietata; quella coreana, al contrario, dà spazio a temi come la famiglia, i forti legami sociali, l’amore innocente, il tutto confezionato in maniera ambiziosa e moderna”.

Frotte di fan giapponesi affollano gli incontri con star che hanno appreso perfettamente la loro lingua per motivi di marketing, e folle di fan cinesi bloccano città intere per gli eventi promozionali; dall’altra parte del globo, intere famiglie sudamericane abbandonano senza rimpianto le soap opera locali per seguire i drama in live streaming, e frotte di giovani statunitensi (privilegiati rispetto ad australiani ed europei) navigano i mega-siti che le ospitano in esclusiva per il pubblico americano. Tuttavia, colpiscono ancora di più altri esempi reali che giungono da luoghi insospettabili: madri di famiglia irachene sintonizzano la TV sui loro drama coreani preferiti mentre sbrigano le faccende domestiche, pastori mongoli si dotano di generatore per non perderseli, giovani israeliani fanno zapping alla loro ricerca, nonnine dell’India rurale nord-orientale si procurano DVD piratati e abbandonano i dialetti locali per imparare a leggerne i sottotitoli, con grande sorpresa dei politici locali che ne approfittano per diffondere idiomi comuni a livello regionale. Accade lo stesso in tutto il resto dell’Asia (Malesia, Filippine, Thailandia, etc), ma anche in Egitto, nell’Europa dell’Est, in Messico e in moltissimi altri paesi del mondo.

Migliaia di “fansubber” prestano gratuitamente la propria opera per tradurre questi telefilm in decine di lingue (Italiano compreso) nel giro di poche ore dalla messa in onda, e centinaia di milioni di utenti di ogni parte del mondo li commentano e recensiscono: da segnalarsi realtà come Viki, Soompi e Dramabeans, oltre alle enciclopedie online DramaWiki e AsianWiki.

Quali dunque sono i numeri dell’Hallyu, per quanto riguarda le produzioni televisive? Recentemente, il drama “Shinui” (신의, gioco di parole fra il termine che indica la fedeltà/lealtà reciproca e il termine “guaritore divino/dio della medicina”, tradotto per il pubblico non coreano come “Faith – The Great Doctor”) al proprio lancio ha toccato l’astronomica cifra di 260 milioni di contatti su Youku (sito cinese equivalente a Youtube), stracciando il record (120 milioni) stabilito l’anno precedente da City Hunter. In soli tre anni di carriera a partire dal primo ruolo di rilievo, il “Principe del continente” Lee Min Ho (protagonista di entrambi i drama succitati e di altre serie molto note) si è già guadagnato sette milioni d’iscritti alla propria pagina Facebook ufficiale; il thread di discussione in Inglese su “Faith” ospitato dal sito Soompi si attesta al momento su cinque milioni di visualizzazioni per 50000 post, veleggiando verso le 2500 pagine, e la serie ha ispirato migliaia di illustrazioni, fan fiction, vignette e video musicali realizzati da artisti di tutto il mondo, nonostante non vanti in patria dati “auditel” eccezionali (anche per via della collocazione in palinsesto all’inizio della settimana). Le varie case di produzione si fanno letteralmente la guerra per aggiudicarsi gli slot (orari di messa in onda) disponibili, e la durissima selezione lascia fuori dal mercato centinaia di progetti ogni anno.

In termini di rating, ossia di ascolti sulle emittenti nazionali (misurati su tutto il territorio e sull’area di Seul, dove risiede buona parte della popolazione sudcoreana), la parte del leone la fanno i drama storici, per decenni ambientati alla corte della dinastia Joseon, per poi spaziare più di recente toccando periodi precedenti (Era Goryeo) o successivi e occupandosi anche delle vicende della gente comune.

I drama storici (o sageuk) sono caratterizzati da splendide ambientazioni (compresi interi villaggi, ali di palazzo e giardini ricostruiti appositamente), costumi sfarzosi, vicende grandiose e drammatiche, accurate ricostruzioni di usanze, tradizioni e stili di vita; gli attori dei sageuk tradizionali sono chiamati a mettere in scena la complessa etichetta di corte e riprodurre il linguaggio parlato ricercato e manierista tipico delle classi agiate dell’epoca.

 

 

 

Tutt’altri filoni (altrettanto di successo) sono rappresentati dal romance (ironico e leggero, drammatico e strappalacrime, o ancor più spesso entrambe le cose), dai thriller e dalle serie d’azione (fra cui “Iris”, “Athena” e “CityHunter”), oppure dalle saghe famigliari.

Quest’anno i drama su cui hanno puntato le case di produzione appartengono tuttavia al genere “fusion”, che combina l’elemento fantastico ad altri generi: grande successo hanno avuto serie come “Vampire Prosecutor”, che mette insieme generepoliziesco e urban fantasy, e “Arang and the Magistrate”, che abbina gli stessi due generi in una cornice storica, ma soprattutto i drama del filone sui viaggi nel tempo, di cui tratterà nel dettaglio la seconda parte dell’articolo. Questi ultimi hanno proposto cocktail inediti, amalgamando l’ingrediente storico/cortigiano a molti altri generi: la commedia romantica/degli equivoci e il chaebol drama ambientato nel mondo dell’alta finanza (“Rooftop Prince”); il romance puro e a una meta-narrazione sulla creazione dei drama stessi (“Queen In-Hyun’s Man); il drama “di corsia” basato sul rapporto fra un medico e i suoi pazienti (“Time Slip Dr Jin”); il fantasy epico con personaggi dotati di poteri sovrannaturali (“Faith”).

Al centro di un drama di successo vi sono innanzitutto gli sceneggiatori: i veterani non rimangono affatto in ombra come in occidente, ma sono corteggiati e lautamente remunerati da emittenti e case di produzione, che li considerano la variabile principale di successo o fallimento di un progetto. Tali autori devono essere in grado di scrivere storie e ideare personaggi che catturino l’immaginazione degli spettatori, appassionandoli alla vicenda, ma sono anche chiamati a saper scrivere in fretta, adattarsi flessibilmente alle esigenze di una realizzazione che in molto casi sfocia nel live shooting (anche a poche ore o minuti dalla messa in onda), collocare in maniera mirata e non troppo appariscente i marchi degli sponsor (brand placement), finanche seguire la troupe nei frenetici spostamenti fra un sito e l’altro, lavorando e dormendo in viaggio.

Per diventare tale, una star dell’Hallyu deve a propria volta rispondere in genere a un gran numero di requisiti: essere di bell’aspetto, saper cantare, saper recitare, suonare uno o più strumenti musicali e preferibilmente ballare, conoscere più lingue straniere fra Giapponese, Mandarino o Taiwanese e Inglese, essere disposta a girare il mondo per eventi promozionali e incontri con i fan, reggere ritmi di lavoro e trasferte talvolta massacranti. In particolar modo, è richiesto di mantenere un decoro e un’immagine impeccabili: guadagnarsi l’affetto e la stima del pubblico asiatico significa rappresentare un esempio positivo per la società, comportarsi correttamente, dimostrarsi sempre disposti a imparare dai propri sunbae (colleghi più anziani ed esperti), a migliorarsi, a sacrificarsi senza lamentele e ad accettare i rischi e le scomodità legati al proprio lavoro con il sorriso sulle labbra. Le lodi per la disponibilità e la professionalità di un attore sul set o la cordialità e la disponibilità nei confronti dei fan non sono mai abbastanza, così come non lo sono le critiche nel caso in cui una star si abbandoni a facili divismi, si comporti in maniera arrogante o non abbia una condotta esemplare. Basta poco per porre bruscamente fine alla carriera di una star dell’Hallyu: le stesse emittenti televisive non sono disposte a legare la propria immagine ad artisti che siano stati al centro di scandali e polemiche.

Fin qui vi abbiamo proposto un’analisi generale di un fenomeno che ha preso piede negli ultimi dieci anni, dilagando nel mondo e infrangendo barriere linguistiche e culturali con sorprendente facilità. Lo abbiamo fatto concentrandoci sulle serie prodotte per la TV e il mercato dell’home video, meno note nel nostro paese rispetto ai film destinati alle sale cinematografiche. La seconda parte dell’articolo entrerà nel dettaglio delle recenti produzioni “made in Chungmuro” (l’Hollywood sudcoreana) caratterizzate dalla presenza di elementi fantastici, trattando in particolar modo di un filone che quest’anno ha avuto un grande successo: quello dei viaggi nel tempo.

http://www.huffingtonpost.com/2011/11/04/universal-studios-president-ron-meyer-we-do-make-a-lot-of-shitty-movies_n_1076214.html

http://www.thereformedbroker.com/2012/02/23/the-economic-crisis-comes-to-hollywood/

http://www.foxnews.com/entertainment/2011/08/01/creativity-crisis-has-remake-obsessed-hollywood-run-out-new-ideas/

http://thestar.com.my/news/story.asp?file=/2012/8/12/nation/11844064&sec=nation

http://www.youtube.com/watch?v=o_zFgPK6V8w

http://www.hancinema.net/korean-waves-reach-india-s-ne-homes-24916.html


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