Planetary Romance Britannico


A cura di Claudio Cordella

“Un tempo si elevava sopra il fiume; ora appariva come l’ultimo dente di un vecchio, le cui radici erano esposte al di là di un labirinto paludoso, Gond, la città di porcellana. Un grappolo di conchiglie bianche e lucenti a tre leghe di distanza, che saliva e scendeva a contorni arrotondati come una catena di dune antiche, tinte di rosa, argento e oro”. PAUL J. MCAULEY, Ancient Of Days, 1998; tr. it. Il mercenario del fiume, Casa Editrice Nord, Milano 2000, p. 277.

Sin dal suo esordio la fantascienza ha saputo regalare ai suoi lettori incredibili avventure ambientate nei mondi più lontani e bizzarri del cosmo; si pensi solo ai romanzi incentrati su John Carter di Marte di Edgar Rice Burroughs (1875 – 1950).Burrounghs, creatore dell’immortale personaggio di Tarzan, colloca le avventure del terrestre Carter su un Marte di fantasia, chiamato Barsoom dai nativi, non lesinando ai suoi lettori belle principesse, guerre e tanta azione. Il cosiddetto ciclo di Barsoom, il cui primo capitolo venne scritto esattamente un secolo fa nel 1911 e pubblicato a puntate l’anno successivo, ebbe il suo inizio ufficiale con il romanzo A Princess of Mars (Sotto le lune di Marte), un apripista per tutta la successiva sci-fi di carattere avventuroso.

A Princess of Mars di Burroughs. Copertina del 1917. In italiano è stato intitolato Sotto le lune di Marte ma è anche noto come La principessa di Marte o più semplicemente come John Carter.

Un modello che esercita ancor il suo fascino sugli appassionati, infatti ne è appena stato tratto un film spettacolare, John Carter, che uscirà nel 2012 diretto da Andrew Stanton per la Disney. L’influenza dell’opera Burroughs è ben visibile in tutti quelli autori nord-americani impegnati nell’intessere esotiche avventure ambientate su lontani mondi extraterrestri, cioè dei romanzi appartenenti al sottogenere del planetary romance (romanzo planetario). Eppure, dal Secondo Dopoguerra in poi, apparvero degli autori capaci di uno sguardo globale, desiderosi non solo di dar vita a mondi-giungla, pianeti desertificati o ricoperti dai ghiacci, buoni per le scorribande del palestrato e indomito eroe di turno, ma sopratutto di rendere credibile una ben determinata civiltà, umana o aliena che fosse. A questo riguardo, un approccio di tipo antropologico alla genesi di una diversa realtà venne proposto in maniera assai efficace dalla scrittrice Ursula K. Le Guin, sia nei suoi romanzi fantascientifici, appartenenti al cosiddetto Hainish Cycle (Ciclo dell’Ecumene), sia nei suoi originalissimi fantasy della saga di Earthsea (Terramare). L’esempio supremo di un nuovo tipo di planetary romance ci viene però fornito da Frank Herbert, l’autore dell’esalogia di Dune, che con il suo mondo desertico, chiamato Dune o Arrakis. All’interno di un accurato quadro fanta-storico questo talentuoso romanziere diede conto di una peculiare ecologia, di usanze tribali, delle strutture di una società aristocratica, di scuole mistiche, del rapporto dell’umanità con la tecnologia, di una singolare economia, interamente basata su una portentosa sostanza chiamata melange o spezia, e persino del linguaggio impiegato dai suoi popoli immaginari. Sino ad allora solo Tolkien, nell’ambito del fantasy però, aveva osato intraprendere un operazione del genere. Herbert riuscì nella titanica impresa di comprimere un intero universo nelle pagine del suo mastodontico libro, a cui diede ben cinque seguiti prima di morire, partorendo quello che potremmo chiamare un romanzo-mondo. Come si può facilmente intuire un lavoro intellettuale di una simile mole non è alla portata di tutti, infatti gli autori che dopo Herbert hanno tentato un’impresa letteraria simile a Dune sono pochi; e ancor di meno quelli che son riusciti nell’impresa. In buona sostanza con Herbet il planetary romance si trasformò in qualcosa di più complesso, un tentativo ben riuscito di rendere grazie al linguaggio le infinite sfaccettature di una civiltà e dell’ambiente da cui quest’ultima è dipendente.

La principessa marziana Dejah Thoris del ciclo di John Carter in una moderna interpretazione fumettistica. Copyright degli aventi diritto.

Il romanziere qui non è un semplice cronista appassionato di avventure eccitanti, buone a scuotere un ideale “lettore medio” dal grigiore della sua vita con emozioni al cardiopalma, ma è un abilissimo demiurgo. Se lo scrittore protagonista del racconto del ’49 El Aleph (L’Aleph) dell’argentino Jorge Luis Borges (1899 – 1986) rischiava la follia tentando di raccontare, centimetro per centimetro, il nostro mondo all’interno di un monumentale poema al contrario Herbert preferì plasmare con le sue mani un universo ex-novo. D’altro canto altri giunsero a prendere in considerazione l’idea del romanzo-mondo in una maniera decisamente più soft. Ad esempio Jack Vance, si andò sempre di più specializzando in peculiari space-opera (come il ciclo di Tschai) nelle quali rivestiva una grande importanza la descrizione di mondi lontani e delle strane civiltà che lì vi erano sorte. Lo stesso Tachai è una sorta di mondo-puzzle, un pianeta occupato da più potenze aliene e dai loro sottoposti umani. Vance però, pur prendendo in considerazione molte di quelle numerose caratteristiche storiche, sociali, economiche e sociali, che fanno di ogni singola civiltà un unicum irripetibile non ne fece mai il fulcro delle sue narrazioni. Costui, nonostante la sua prosa scorrevole, non scevra a volte di un tocco di genuina poesia, si mostrò chiaramente interessato piuttosto all’esotico, al bizzarro e all’inconsueto. Effettivamente la maggior parte della produzione di Vance oscilla continuamente tra i canoni della sci-fi e quelli del fantasy, muovendosi in quella sorta di territorio crepuscolare di interfaccia tra i due generi che viene chiamato science-fantasy. L’influsso su questo romanziere dell’esotismo di Burroughs, anch’egli d’altronde considerato un autore di science-fantasy, è palese. Rimanendo Oltreoceano dobbiamo segnalare come Harry Harrison, il quale esordì con la serie Deathworld (Pianeta impossibile), delle avventure cosmiche che univano satira sociale e azione, nella maturità partorì un vero gioiello con la saga degli Ylanè.

Quest’ultima è una stupefacente ucronia preistorica nella quale dinosauri intelligenti, che si servono di un’avanzata biotecnologia, si scontrano contro i cacciatori-raccoglitori Homo sapiens. La fantapreistoria di Harrison, nella quale il lettore può fare l’esperienza di un incontro virtuale con altri esseri senzienti dotati di una loro peculiare biologia, di un loro linguaggio, corporeo oltre che verbale, di una propria struttura sociale e così via, è stupefacente. Nel 1984 con West of Eden (L’era degli Ylanè), Harrison plasmò dunque il suo “Dune antidiluviano” di cui scrisse ben due seguiti.

West of Eden (L'era degli Yilanè), copertina.

Due anni prima era già stata edita Courtship Rite (Geta) del matematico canadese Donald Kingsbury, un’opera dagli spiccati tratti “herbertiani”. Si tratta di un romanzo, tratto da un precedente racconto dell’autore, che esplora tutte le sfaccettature della vita quotidiana della colonia umana di Geta, un pianeta lontano diversi anni-luce dalla Terra. Geta non conosce il pericolo di guerre mondiali, l’ingegneria genetica è la regina dei saperi tecno-scientifici ma al tempo stesso sono pratica comune i matrimoni multipli e il cannibalismo. Sin qui però non solo abbiamo fatto esempi tratti dalla letteratura fantascientifica di lingua inglese, ma esclusivamente di carattere nord-americano; tutti gli autori sin qui citati sono statunitensi o canadesi. E per quanto riguarda il Regno Unito, che cosa son stati capaci di inventarsi i sudditi di Sua Maestà Britannica (01)? Nel campo del fantasy riveste senz’alcun dubbio una grande importanza, ancor oggi fondamentale, la figura di J. R. R. Tolkien, a cui dovremmo aggiungere anche i contemporanei di quest’ultimo C. S. Lewis e Mervyn Peake. Senza contare geni del fantastico a noi temporalmente più vicini del calibro di Michael Moorcock, Philip Pullman, Terry Pratchett e Neil Gaiman. Un discorso a parte poi lo meriterebbero poi quegli autori british appartenenti alla cosiddetta corrente del new weird, volti a ridefinire i confini dei generi tra fantascienza e fantasy, rompendo convenzioni e tabù consolidati: valgano per tutti i nomi di China Miéville e di Michael Swanwick. Un ulteriore discorso a sé stante lo meriterebbe il fanta-umorismo del compianto Douglas Adams (1915 – 2001), geniale umorista che riuscì a far sposare tra loro la space-opera con la satira, offrendo a piene mani massicce dosi di “umorismo britannico”. Sempre un discorso a sé stante andrebbe fatto per quegli autori che si son concentrati su tematiche di carattere utopistico/distopico e/o sociologico come Aldous Huxley, George Orwell e più recentemente John Brunner (1934 – 1995). Monumentale e ostico, Stand on Zanzibar (Tutti a Zanzibar, ‘68) di Brunner mescola tra di loro futurologia, percorsi letterari post-moderni e finti articoli di giornale con lo scopo di sviscerare i malesseri del nostro Occidente industrializzato. Molti degli elementi presenti in Tutti a Zanzibar, quali la follia metropolitana, il dominio dei mass-media e delle grandi corporazioni, i pericoli di uno sviluppo tecnologico senza freni, risultano essere ancor oggi attuali.

Courtship Rite (Geta), copertina.

Questo non tanto perché Brunner fu un bravo profeta, dotato di un qualche potere soprannaturale, quanto piuttosto perché la sua letteratura affondava saldamente le sue radici nella realtà che aveva dinnanzi e nei suoi immediati sviluppi. I voli pindarici della fantasia, tipici di un Burroughs ma anche di un Vance o di un Herbert, in Tutti a Zanzibar non hanno alcuna ragione di esistere. Se Brunner, a modo suo, si calò nel presente al contrario James Graham Ballard (1930 – 2009), pure lui salito alla ribalta negli anni ’60 – ’70, preferì diventare un “distruttore di mondi”, affrontando in modo nuovo i temi legati al catastrofismo, esplorando l’inner space (spazio interiore), ovverosia gli abissi della nostra psiche. Effettivamente non sono mai mancati scrittori che trattassero di utopia, distopia e di “fine del mondo”, come John Wyndham (1903 – 1969) e John Cristopher (pseudonimo di Samuel Youd), autentici geni dell’apocalisse fantascientifica. Paradossalmente, e nonostante tutti i pregiudizi e i luoghi comuni relativi alla letteratura fantascientifica, molti degli scrittori di sci-fi, compresi gli autori british sin qui esaminati, hanno tutti quanti i piedi saldamente piantati per terra. Persino il tipico paesaggio “ballardiano”, anche il più inverosimile, nasce da un mutamento ambientale del nostro pianeta che a sua volta sconvolge la mente e le emozioni di coloro che vengono coinvolti in queste trasformazioni epocali. Senza contare che persino una delle più celebri figure della sci-fi britannica, lo scomparso Sir Arthur C. Clarke, pur essendo sempre stato un fervido sostenitore dell’esplorazione dello spazio, non ha mai dato alle stampe alcun romanzo che sia minimamente paragonabile al Dune di Herbert. Clarke, assunto a fama mondiale dopo aver collaborato con il regista Stanley Kubrick alla stesura della sceneggiatura del film 2001: Odissea nello spazio, è sempre stato interessato ai viaggi cosmici e agli sviluppi della tecnologia. Mostrando di avere un approccio all’idea del progresso quasi anacronistica, data la quantità industriale di ottimismo che il nostro ha sempre profuso nei suoi scritti. Partendo da tali presupposti l’interesse per l’analisi di una realtà completamente “altra”, diversa dalla nostra quotidianità, è sempre passata in secondo piano. Anche i protagonisti del bellissimo e poetico The City and the Stars (La città e le stelle) del ’56, pur appartenendo un futuro lontano milioni di anni dal nostro presente, mostrano di non essere troppo lontani, nel modo di agire e di comportarsi, dagli umani del nostro tempo.

Sir Arthur C. Clarke

Comunque sia effettivamente Clarke tentò, basandosi sulle conoscenze della sua epoca, di delineare l’utopia tecnologia della città chiusa di Diaspar nella quale una popolazione umana post-umana, immortale e generata artificialmente, trascorre il suo tempo perdendosi della realtà virtuale e non sa più cosa significhi nascere e morire. L’interesse primario di Clarke però, il quale imbastisce un genuino racconto filosofico, è di mostrare come gli abitanti di Diaspar siano delle vittime di false credenze, di quanto sia sbagliato smettere di osservare le stelle e di voltare le spalle alle immensità del cosmo. Anche gli scrittori britannici che dagli anni ’80 in poi hanno contribuito a rivoluzionare e rinnovare la space-opera, come Iain M. Banks o Peter F. Hamilton, non hanno dato vita nemmeno loro a un romanzo minimamente paragonabile da Dune. L’utopia della Cultura dello scozzese Banks, basata sulla convivenza tra diverse specie umanoidi e alcune Intelligenza Artificiali chiamate Menti, pur se affascinante e complessa, rimane tratteggiata solo a grandi linee all’interno di questo ciclo. Hamilton invece impiega a piene mani, dando vita così a poderosi romanzi-fiume, a tutte le convinzioni dell’avventura spaziale; da quelle delle riviste pulp sino al cyberpunk. Solo Banks, talentuoso scrittore l’abilità di alternare un linguaggio crudo a un umorismo sarcastico, senza dimenticare la pura azione, il melodramma e un genuino lirismo, ha recentemente tentato di imitare la certosina abilità di Herbert con il monumentale The Matter (2008). Qui il nostro, intessendo una trama cervellotica come poche, ci porta sul Shellworld (Mondoscudo) di Sursamen; una specie di pianeta artificiale dalla bizzarra struttura “a cipolla”, in cui ogni livello è occupato da una diversa civiltà, naturalmente non eguali dal punto di vista dello sviluppo. Gli alieni Morthanveld, potenti quasi come la stessa Cultura, svolgono la funzione di tutori nei confronti dei  meno evoluti Nariscene i quali a loro volta adempiono a un compito similare per gli Oct. Questa sorta di gioco a incastro, simile a una scatola cinese o a una matriosca, non si ferma qui perché gli Oct stessi mostrano atteggiamenti paternalistici nei confronti dei Sarl; governati da una monarchia e capaci di padroneggiare solo una primitiva tecnologia pre-industriale. All’interno di questa struttura così elaborata è l’organizzazione sono le specie più avanzate dell’Optimae, di cui anche la Cultura fa parte, che programmano a tavolino lo sviluppo futuro dei “popoli sottosviluppati” di Sursamen. La narrazione di Banks si concentra sulla famiglia reale dei Sarl, il che rende se possibile The Matter ancor più simile a un “Dune britannico del 21° secolo”: l’erede al trono Ferbin, in fuga dopo l’assassinio del padre; suo fratello Oramen, ingannato e manipolato dallo stesso regicida; e infine la loro sorella Djan Seriy Anaplian. Quest’ultima ha lasciato da tempo Sursamen, diventando un agente dei servizi segreti della Cultura, Special Circumstances (Circostanze Speciali), ritorna nella sua terra natale dopo la morte del genitore e, su espressa richiesta dei suoi superiori, inizia a indagare sulle strane manovre degli Oct, interessanti alle rovine della Nameless City (Città Senzanome).

The Matter, copertina.

Un altro suddito di Sua Maestà Britannica, Bob Shaw (1931 – 1996), aveva però già dato alle stampe nel 1975 un romanzo incentrato su un mondo artificiale sin dagli anni ’70: Orbitsville (Sfera orbitale); a cui seguirono nel 1983 Orbitsville Departure (Ritorno a Orbitsville) e infine nel ’90 Orbitsville Judgement (I costruttori di Orbtisville). Orbitsville è una sfera di Dyson, cioè un’immensa costruzione eretta attorno a un sole in modo da imprigionarlo, e i diversi romanzi di Shaw parlano degli esploratori umani che tentano di svelarne i misteri. La serie, avendo a che fare con l’esplorazione di un immenso manufatto alieno portano inevitabilmente alla memoria Rendezvous with Rama  (Incontro con Rama) di Clarke. Quest’ultimo uscì nel ’73, dunque 2 anni prima di quello di Shaw, e ci racconta, minuto per minuto con una tecnica da reportage giornalistico, dell’ingresso nel nostro Sistema Solare di un misterioso cilindro cavo di provenienza extraterrestre. In questo caso l’autore offre più domande che risposte al suo lettore sulla natura del misterioso oggetto chiamato Rama; i diversi seguiti, scritti a quattro mani da Clarke con l’americano Gentry Lee, nati al contrario per poter chiarire i numerosi misteri irrisolti sono degli autentici libri-spazzatura facilmente dimenticabili. Molto più aderente al modello di romanzo-mondo, e di planetary romance maturo che abbiamo già visto Oltreoceano con Hebert, è invece il ciclo di Confluence di Paul J. McAuley. Il primo romanzo di questa trilogia, Child of The River (Il ragazzo del fiume) del ’97, ci conduce nell’ennesimo habitat spaziale della sci-fi, questa volta caratterizzato da un fiume immenso che lo percorre da un’estremità all’altra e da una popolazione “umana” assai particolare.

McAuley, che dobbiamo annoverare tra i sostenitori britannici del cyberpunk e del rinnovamento della space-opera, analogamente a I. M. Banks, mostrò la sua intenzione di  voler dare ai suoi lettori un quadro affascinante quanto complesso, ricco e pieno spunti di carattere speculativo. Peccato che quest’autore, a parere di chi scrive, abbia finito ben presto con il tradire i suoi ottimi propositi. In un remoto futuro, lontano da noi milioni di anni, alcuni nostri discendenti, noti come i Conservatori, costruiscono il mondo artificiale di Confluence per poi andarsene all’interno di un buco nero, molto probabilmente per passare in un altro universo. I diversi popoli di Confluence, nonostante il loro aspetto antropomorfo, sono tutti stati creati tramite l’ingegneria genetica a partire da diverse specie animali. Alcuni di questi popoli hanno la possibilità di evolvere, di cambiare, mentre altri, chiamati con disprezzo “indigeni”, sembrano esserne privi. McAuley, ispirandosi per molti aspetti all’India, il libro sacro che racconta delle imprese dei Conservatori, i Puranas, rimanda nel nome ai testi sacri induisti dei Purana, vorrebbe rendere l’idea di una realtà nella quale scienza e religione, superstizione e tecnologia convivessero tra loro. Confluence non è un mondo in pace; parzialmente desertificato in seguito a un conflitto contro delle macchine ribelli ora è attraversato da una terribile guerra civile. Le genti del fiume che sono state “cambiate”, in una maniera che l’autore non spiegherà mai esattamente, vengono considerate eretiche; il che non può che dar vita che a uno scontro feroce contro coloro che si proclamano ancora fedeli ai Conservatori. Questi ultimi da parte loro non possono, o non vogliono, arginare in alcun modo questa situazione estremamente caotica. I Conservatori infatti hanno lasciato dietro di sé dei particolari dispositivi elettronici, le cosiddette “are”, le quali erano in grado di proiettare degli avatar olografici di costoro ma con l’andar del tempo esse sono diventate mute e molte son state distrutte o disattivate. All’origine di tutto questo caos sembra esserci un’autentica umana, l’esploratrice dello spazio Angel (o Angelo), che sbarcata a Confluence dopo un viaggio nello spazio intergalattico durato milioni di anni diventa il perno di tutti i mutamenti che sconvolgono questo strambo universo universo fluviale.

Paul J. McAuley

La trilogia di McAuley si focalizza completamente sul giovane Yamamanama, conosciuto più semplicemente come Yama, il quale è in grado di farsi ubbidire dalle numerose macchine che popolano Confluence, inseguito da chi ne vorrebbe sfruttare i poteri per i propri fini mentre il nostro eroe vorrebbe semplicemente scoprire il mistero che si cela dietro le sue origini e rintracciare la sua gente. Il risultato, quantomeno a giudizio di chi scrive, è che solo un’avventura che prosegue stancamente lungo l’arco dell’intera trilogia per concludersi con un finale che in definitiva non spiega un bel nulla. L’introduzione nel terzo romanzo della serie, Shrine Of Stars (Yama di Confluence) del ’99, dei viaggi del tempo e dei paradossi temporali sembra proprio un qualcosa di posticcio, una trovata affrettata dell’ultimo minuto. A questo punto, per la sua vena malinconica e al tempo stesso drammatica, è molto meglio il racconto Recording Angel (Ricordare Angel); novella che funge da prequel alla trilogia di romanzi esprimendone al meglio le qualità migliori, riportandoci al momento in cui Angel/Angelo sbarca per la prima volta su Confluence. Volendo potremmo dire che il buon McAuley si è letteralmente perso nel fiume fantascientifico da lui stesso immaginato. In questo il romanziere britannico è senz’altro in buona compagnia; il suo collega americano Philip José Farmer (1918-2009), grande ammiratore di Burroughs, fece più o meno la stessa fine con la sua saga di Riverworld (Mondo del Fiume) perdendosi in acque simili. Alieni che si cimentano in progetti di resurrezione, avventurieri vittoriani, nazisti, scrittori e monarchi medievali vengono tutti quanti coinvolti in un’unica portentosa avventura. Il risultato però, a eccezione del primo capitolo, To Your Scattered Bodies Go (Il fiume della vita) uscito nel ’71, è piuttosto noioso con degli autentici “boli” di filosofia in pillole alternati da scene degne di un action-movie hollywoodiano. Fuori di metafora, idee grandiose e una fervida immaginazione, nonché il tanto decantato sense of wonder, spesso tirato in ballo quando non si sa cosa dire di uno scrittore che viene considerato un classico o che ha ottenuto un rapido successo ma nel quale non si intravede né una cultura di particolar spessore, né uno stile realmente degno di nota, non bastano per plasmare un capolavoro. Lo stesso Farmer, dopo aver regalato ai suoi lettori un mondo incredibile, solcato da un polo all’altro da un fiume lungo le sue rive si sono risvegliate intere generazioni dell’umanità del passato, compresi tutti i personaggi grandi e piccoli della Storia, ci si perde allegramente. A questo punto dobbiamo registrare un analogo naufragio per l’inglese Brian Aldiss con il suo Hothouse (Il lungo meriggio della Terra) del ’62 e soprattutto con la trilogia di Helliconia, edita nella prima metà degli anni ’80: Helliconia Spring (La primavera di Helliconia) nel 1982; Helliconia Summer (L’estate di Helliconia) nel 1983 e infine due anni dopo Helliconia Winter (L’inverno di Helliconia).

Brian Aldiss.

Sul pianeta di Helliconia le stagioni durano secoli interi e la civiltà è soggetta a uno sviluppo ciclico; infatti ogni qualvolta il gelo invernale arriva la civilizzazione è destinata a svanire. La primavera di Helliconia ci porta proprio alla fine di un lungo periodo invernale; gli esseri umani riscoprono mano a mano arti e conoscenze che erano andate perdute mentre iniziano a imporsi sulla specie aliena dei Phagor. In questo caso la narrazione abbraccia più generazioni, offrendo al lettore una genuina narrazione corale,  con solide riflessioni sul rapporto uomo e ambiente e sul contrasto tra civiltà e barbarie. Il successivo L’estate di Helliconia è purtroppo un monumentale, quanto tedioso,  tentativo di scrivere un dramma elisabettiano in salsa fantascientifica; amore, morte, passione, congiure di palazzo e quant’altro fanno di questo romanzo in realtà quasi un fantasy. L’opera conclusiva della saga, meno ambiziosa e al tempo stesso più efficiente, affronta la teoria ecologica di Gaia, che vede i pianeti come super-organismi viventi, riesce a trattare con egual perizia sia i drammi privati dei protagonisti, quanto quelli pubblici legati al ritorno di una nuova epoca glaciale. Molto più semplicemente, invece Il lungo meriggio della Terra ci conduceva in un futuro distante da noi diversi milioni di anni dominato dalle piante, assolutamente implausibile quanto affascinante, ricolmo di meraviglie e anch’esso dai toni quasi fantasy (dei ragni vegetali possono passare dal nostro mondo alla luna percorrendo le loro ragnatele). Aldiss, come Herbert del resto, tende a  cadere in un certo misticismo, ma il suo ritratto di un universo “altro” risulta di impatto. Tra gli anni ’70 e gli anni ’80 Doris Lessing, premio Nobel per la letteratura nel 2007, diede alle stampe di romanzi della serie Canopus in Argos: Archives (Canopus in Argos: Archivi); opere nate dalla suggestione del sufismo, scritte con linguaggio secco, fatto di elisioni e indiretto, volto piuttosto a offrire suggestioni che descrizioni esaurenti.

Doris Lessing.

In uno dei capitoli di questo ciclo, The Marriages Between Zones Three, Four and Five (Un pacifico matrimonio) del 1980, nel pianeta Shikasta, suddiviso in diverse Zone all’interno di ciascuna delle quali paiono vigere leggi fisiche e condizioni ambientali particolari, i Tutori ordinano dei matrimoni tra i diversi regnanti di questi settori. La Lessing si è dedicata alla space fiction, un volo fantastico riguardante lo spazio e l’ambiente esterno a noi per poi intraprendere un rischioso viaggio all’interno del nostro spazio psichico; un’operazione molto simile a quella che avevamo già visto fare a Ballard con le sue catastrofi. Invece l’esistenza di un mondo settorializzato, nel quale una civiltà superiore fa da guida a tutte le altre, lo ritroviamo 30 anni dopo nel Sursamen di Banks. La prosa della Lessing, allusiva più che descrittiva come già abbiamo accennato, l’allontana volutamente da quello che noi abbiamo chiamato “modello Dune”; anzi, laddove Herbert offriva la spiegazione didascalica, la ricerca del particolare e la cura del dettaglio, quasi fosse un bravissimo artigiano intento a un lavoro di precisione, la Lessing al contrario volutamente non spiega, lascia tutto sottinteso offrendo ai suoi lettori delle bozze incomplete. Quest’autrice, più legata al mainstream che alle convenzioni della sci-fi, si distacca con piena convinzione dall’esperienza del romanzo-mondo herbertiano preferendo in sua vece l’allegoria filosofia e l’introspezione dell’animo umano. Concludiamo infine questa nostra carrellata di demiurghi di Sua Maestà con un autore scozzese, Ian R. MacLeod che nel 2002 ha saputo regalarci con il romanzo breve Breathmoss (Muschiorespiro), un indimenticabile ritratto di un mondo post-umano distante anni-luce dalla Terra. All’interno di poche pagine, seguendo il filo narrativo di una storia sentimentale di formazione che nulla ha da invidiare al romanticismo di un Theodore Strugeon o di un Cordwainer Smith, MacLeod regala ai suoi lettori un viaggio tra i meandri di un pianeta esotico come lo Tschai di Vance, complesso come il Mondoscudo di Banks e ricco di speculazioni sulla tecnologia e l’evoluzione umana come in Confluence di McAuley. Il che vale a dire che gli scrittori inglesi, a volte in maniera decisamente originale, hanno saputo tranquillamente capaci di plasmare c on le loro mani degli universi letterari fantastici unici e originali.

Note

(01) Il Canada è tutt’oggi una monarchia costituzionale, il capo di Stato è infatti la regina Elisabetta II d’Inghilterra. Geopolitica a parte, ho voluto accomunare Donald Kingsbury ai suoi colleghi statunitensi nella parte introduttiva del saggio per poi concentrarmi di seguito sugli autori britannici. Oltrepassando, per così dire, l’Atlantico e giungere in Europa.

Copertina di Rendezvous with Rama (Incontro con Rama). Nell'illustrazione è ben visibile uno spaccato dell'astronave-mondo aliena immaginata da Clarke.


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