di Claudio Cordella
«Lì osservò con attenzione: erano degli aracnidi alti tre metri, con una grossa testa piatta, ma poteva anche trattarsi di testa e busto assieme, poiché attaccate a quella parte del corpo c’erano sei gambe, anzi, quattro gambe, mentre le altre due, le anteriori, sembravano braccia». MARCO ALFAROLI, Archon, Runa Editrice, Padova 2013, p. 11.
La space-opera è forse uno dei filoni più rappresentativi dell’intera sci-fi, ne ha seguito nel corso dei decenni le evoluzioni e i cambiamenti, assorbendone le mode letterarie del momento, rielaborandole e facendole proprie. Lasciando stare i primi esempi di novelle a base di viaggi interplanetari otto-novecenteschi, come quelli di Jules Verne ed Herbert George Wells per intenderci, ci si imbatte nei fantasiosi autori dell’età d’oro dei “pulp magazine” degli anni ’30 – ’40, riviste popolari a poco prezzo dalle sgargianti copertine a base di sexy-girl, mutanti, alieni, robot e astronavi. La space-opera all’epoca era avventurosa, roboante e colma del cosiddetto “sense of wonder”, dominata da scrittori come Edward Elmer (Doc) Smith, Alfred E. van Vogt, Edmond Hamilton, Jack Williamson oltre che da figure leggendarie come John Wood Campbell, uno dei padri della fantascienza. Al tempo a dire il vero il rigore scientifico non andava tanto per la maggiore, Campbell stesso, che fu per molti anni il curatore editoriale di Astounding, era un sostenitore della “super-scienza”. I suoi eroi in genere erano degli esseri incredibili, mentalmente e fisicamente superiori a chiunque altro, i quali padroneggiavano una scienza altrettanto sorprendente. Bisognerà aspettare Isaac Asimov, ed il suo celeberrimo ciclo della Fondazione (in seguito unito a quello altrettanto noto dei Robot positronici), perché la space-opera diventi più sobria e più scientificamente credibile. Comunque nemmeno Asimov abbandonò le scienze immaginarie, si pensi solo alla sua psicostoria, per non parlare dei mutanti dai poteri mentali (il Mulo).
Dopo la fine della Seconda Guerra la space – opera iniziò a mutare volto, l’energia nucleare era stata liberata, gli spettri di Hiroshima e Nagasaki aleggiavano anche sulle pagine della fantascienza più immaginifica. Autori che prima potevano ignorare che cosa accadeva nel mondo esterno, per rifugiarsi in incredibili fantasie a base di superuomini e super-macchine, trovarono sempre più difficile farlo: gli anni ’50 – ’60 furono un intenso periodo di trasformazione. Diciamo che la space-opera, quando diverse sue “profezie” si tramutarono in realtà, si fece una doccia gelata, tutto era molto esaltante ma al tempo stesso pericoloso. I vecchi leoni dei pulpiniziarono a trovarsi in difficoltà mentre nuove leve andavano ad affermarsi, si chiedeva inoltre una nuova sensibilità nei riguardi della politica, della società e dell’economia. Il vertice della space-opera del Dopoguerra credo che possa identificarsi in The Stars My Destination (tradotto in italiano come Destinazione stelle o come Tigre della notte) di Alfred Bester. Si tratta di un autentico gioiello letterario, pubblicato per la prima volta nel 1955 non affatto invecchiato da allora, rimanendo adrenalinico, fresco e scioccante così come quando venne scritto. Bester, a differenza dei suoi predecessori, mostrò una maggiore considerazione per l’approfondimento psicologico dei suoi personaggi, delle persone credibili e non dei semplici manichini unidimensionali con i super-poteri, oltre ad una scrittura infinitamente più ricca e matura, non priva di considerazioni di carattere politico – sociale. Del resto in quel periodo aveva grande influenza la fantascienza sociologica: autori già noti come Williamson vi si cimentarono, altri ci regalarono piccoli classici indimenticabili come The Space Merchants (I mercanti dello spazio, 1953) di Frederik Pohl e Cyril Kornbluth.
In questo lasso di tempo iniziarono ad apparire anche i lavori di scrittori come la Ursula K. Le Guin e Cordwainer Smith; i quali seppur ideologicamente agli antipodi, introdussero le scienze umane all’interno della space-opera, contribuendo alla sua maturazione. Quasi un caso a sé, considerato da alcuni critici a cavallo tra fantascienza e fantastico puro, è Dune (1965) di Frank Herbert; monumentale lavoro letterario che accosta gli imperi galattici all’ecologia, alla filosofia, al misticismo e alla religione. Le scienze fisiche e tecnologia, da sole, evidentemente non bastano più ad alimentare una saga stellare degna di questo nome. L’opera cult di questo sotto-genere è infatti individuabile in Nova di Samuel R. Delany, un’avventura spaziale barocca, con diversi riferimenti al sopracitato Destinazione stelle di Bester, imperniata però sul tema meta – letterario della difficoltà (anzi dell’impossibilità) dello scrivere un romanzo.
In seguito la space-opera si è ibridata alla perfezione con il cyberpunk degli anni ’80, mantenendo tutt’ora vive alcune delle soluzioni maggiormente valide sperimentate all’epoca. Da allora il sense of wonder e avventura oltre l’ignoto, tipiche dei classici ante-guerra dei pulp, si sono sposate con l’accurata rappresentazione di un preciso quadro politico – sociale, personaggi realistici e alta tecnologia in quantità massiccia. Lo stesso Bruce Sterling, uno dei padri del cyberpunk, diede valida prova di quest’inedita unione con il suo cicloSchismatrix(Matrice Spezzata), costituita da un romanzo (Schismatrix, La matrice spezzata, 1985) e da alcuni racconti. Tutti ambientati in un Sistema Solare diviso tra fazioni post-umane che hanno cambiato i loro corpi grazie alla cibernetica o all’ingegneria genetica. Le suggestioni tratte da Delany, la cui narrativa influenzò Sterling ai tempi dei suoi esordi, erano assai evidenti.
D’altro canto se validissimi romanzieri come il talentuoso Michael Swanwick (Vacuum Flower, L’intrigo wetware, 1987), hanno abbandonato la space-opera, per sperimentare i territori sperimentali del cosiddetto new weird, altri hanno continuato imperterriti a deliziare i loro lettori con trame a base di viaggi interstellari e conflitti cosmici, post-umani, Intelligenze Artificiali e cyborg: tra tutti Paul J. McAuley e Iain M. Banks. Altri, come Richard K. Morgan (Altered Carbon, Bay City, 2002) e John Charles Wright (The Golden Age, L’etàdell’oro, 2002), hanno dimostrato al contrario quanto il cyberpunk si sia trasformato in un manierismo pieno di luoghi comuni, cliché e stereotipi, persino quando ricorre al sostegno della space-opera.
Non dimentichiamo inoltre come un autrice emersa negli anni ’70, per poi esplodere creativamente nel decennio successivo, Carolyn Janice Cherryh (C. J. Cherryh), sia anch’essa tutt’oggi attiva; assai nota per una narrativa che riunisce magistralmente tra loro una prospettiva femminile sul potere politico, assieme a una cura maniacale per i dettagli tecno-scientifici e per l’introspezione psicologica. Spesso e volentieri si ha l’impressione che la Cherryh, ben prima del serial televisivo Battlestar Galactica di Ronald A. Moore, abbia cercato di creare una sceneggiatura per un qualche drammatico sceneggiato ripreso in presa diretta. Analogo discorso potremmo farlo per la Lois McMaster Bujold. Invece, tra i talenti più rimarchevoli apparsi all’inizi di questo nostro ventunesimo secolo, è giocoforza imbattersi in Peter F. Hamilton, il quale ha scritto dei poderosi romanzi – fiume facenti parte di saghe altrettanto formidabili: The Night’s Dawn Trilogy (L’alba della notte) e la Trilogia del Vuoto. Hamilton non sembra essersi dimenticato né degli insegnamenti degli autori degli anni ’30 – ’40, né dell’iper – tecnologico cyberpunk. Senza doverci dilungare riguardo al cinema, alla televisione, ai comics americani e ai manga giapponesi; ricordiamo semplicemente come la carica visuale surreale della space-opera sia riuscita spesso ad irrompere anche in altri media diversi dalla letteratura (Star Wars, Star Trek, Silver Surfer, TheFive Star Stories, La casta dei meta-baroni, nella vasta produzione fumettistica di Leiji Matsumoto, etc.).
In Italia questa particolare accezione del fantastico, a differenza del fantasy di stampo tolkeniano, purtroppo non è mai stata vista di buon occhio. Il che è curiosissimo, infatti diverse figure appartenenti a buon diritto al medioevo e alle sue estensioni fiabesche, molto amate dai nostri connazionali, ricorrono spessissimo nella space-opera che ha sempre molto amato gli imperi galattici e le aristocrazie feudali sin dai tempi di Edmond Hamilton e di van Vogt. Anzi, diversi degli esempi di space-opera sopra citati, come il romanzo Dune oppure il manga The Five Star Stories di Mamuro Nagano, per non parlare della serie a fumetti La casta dei meta-baroni di Alejandro Jodorowsky e Juan Gimenez, sono caratterizzati da una nobiltà da “ancién – regime” dall’intricata genealogia. Eppure, nonostante tutto, gli italiani sembrano essere molto diffondenti nei confronti delle avventure cosmiche.
Marco Alfaroli, con il suo Archon, sfida quest’irrazionale paura italica con il suo interessante romanzo. L’autore dimostra di conoscere alla perfezione la tradizione della space-opera a cui abbiamo accennato, seppur per sommi capi, poc’anzi; in particolare a chi scrive ha portato alla mente sin dalle prime pagine Alpha Centauri or die (Alfa del Centauro, 1963) della Leigh Brackett e Forty Thousand in Gehenna (I 40.000 di Gheena, 1983) della Cherryh. Interessanti paragoni si potrebbero anche fare con The Survivors (Gli esiliati di Ragnarock, 1958) di Tom Godwin mentre il ciclo di Darkover della Marion Zimmer Bradley si distacca nettamente da tutti questi esempi, Archon compreso, per il suo essere più un fantasy medievaleggiante che qualsiasi altra cosa.
In tutti questi casi comunque degli umani, per loro libera scelta o deportati, giungono su di un lontano pianeta dove riescono, seppur se separati dalla loro civiltà di provenienza, a continuare ad esistere come società organizzata e a stabilire una qualche forma di contatto con le forme di vita aliena indigene della loro nuova patria. I primi coloni del pianeta Archon, posto in orbita attorno alla nana rossa Proxima Centauri, sono dei fuggitivi, un po’ come quelli della Brackett di Alfa del Centauro, in fuga a uno spietato Impero Terrestre che tiene in pugno l’intera Terra. Qui i nostri, guidati da Ossian Larsson, si imbattono in un extraterrestre, Zeist, dotato di molteplici corpi e di una mente collettiva. Nel 2968, dopo tre secoli di coesistenza pacifica con questa creatura, una flotta imperiale, al comando dell’ammiraglio Stig Hamsum, fa la sua comparsa nel sistema trisolare di Centauri. La loro intenzione è quella di ricondurre in seno all’Impero i discendenti dei ribelli, sottrattisi al giogo dispotico dell’Imperatore tanto tempo prima; nonché di svelare il mistero della longevità che sembra caratterizzare questa comunità. Lo stesso storico leader Ossian, il cui nome richiama il leggendario omonimo bardo scozzese, i cui fittizi canti vennero pubblicati nel Settecento dal pre-romantico James Macpherson (1736 – 1796), vive ancora. A rivolvere questa drammatica crisi politico – militare, dovrà però sopratutto pensarci il suo successore: Hubert Boon. Costui, nonostante mostri un profondo rispetto per uno statista del calibro di Ossian, è ormai lui a essere capo di un’insolita società libertaria, una democrazia diretta a base telepatica.
Archon, così come Destinazione stelle di Bester oppure Downbelow Station (La Lega dei mondi ribelli, 1981) della Cherryh, si segnala per gli elementi politico – sociali inseriti nella narrazione, ben radicati nel nostro presente: «Il sistema economico che aveva funzionato per tutto il ventesimo secolo era entrato in crisi nei primi anni del ventunesimo. C’era stato il fallimento degli stati. Anche di quelli più forti, perché vantavano credito su quelli più deboli, che continuavano a indebitarsi. E quando quest’ultimi non poterono più pagare i loro debiti, anche i creditori persero tutto. L’economia mondiale collassò e qualsiasi tipo di moneta divenne carta straccia. In breve tempo si tornò al baratto». ALFAROLI, Archon, p. 16.
Dalla crisi economica alla guerra mondiale il passo è breve, dalle ceneri di questo conflitto di inaudite proporzioni scaturisce una prima forma di dispotico governo planetario: il Primo Regno della Terra Unita. Quest’ultimo, dopo aver sottomesso le libere colonie di Marte e Titano, si spinge ad aggredire due pianeti extrasolari, onde depredarli delle loro risorse naturali, trasformandosi alla fine nell’Impero Terrestre. Dunque un governo per nulla benevolo, affatto simile all’omonima struttura imperiale che nei romanzi della Bradley ristabilisce i contatti con coloni perduti di Darkover, sprofondati in una peculiare ere pre-tecnologica da innumerevoli secoli. Se, come chiunque può notare, gli agganci con l’attualità non mancano, Archon mostra di appartenere al tempo stesso a quella corrente della space-opera imperniata sugli imperi cosmici. Un tipo peculiare di speculazione fantascientifica che negli anni ’70 attirò l’attenzione del critico nostrano Alex Voglino nel suo saggio Il concetto di Impero nella fantascienza, pubblicato all’interno della monumentale antologia Imperi Galattici. Epica spaziale 1923/1978, l’edizione in lingua italiana di quei Galactic Empires volumes I and I, curati da Brian Aldiss. Ecco allora che, seguendo fedelmente quelle regole del gioco imposte dall’esistenza di una monarchia interstellare, sviscerate a suo tempo sia da Voglino che da Aldiss, in Archon fa capolino una nobiltà di natura marcatamente feudale. Il tutto nello spirito dei già citati Dune, The Five Star Stories, La casta dei meta – baroni e simili; insomma quegli “evi di mezzo” hi-tech che, come si diceva poc’anzi, sono spesso e volentieri trascurati dai seguaci italiani di J. R. R. Tolkien o di George R. R. Martin. Anche se, lo ribadiamo, a volte l’unica differenza tra un fantasy e una space – opera è solo la presenza o meno di qualche orpello tecnologico (Star Wars docet).
Qui però, rimanendo lontani anni-luce da qualsiasi tentativo di contaminazione con città turrite e cavalieri arturiani, la genesi di una nuova aristocrazia viene legata anch’essa ai germi di crisi presenti nel nostro quotidiano, coerente con quella cornice storica futuristica che l’autore aveva accennato sin da principio: «Il mondo è suddiviso in dodici mega territori, di proprietà esclusiva dei vassalli dell’Imperatore, discendenti di quelle famiglie potentissime che prima della guerra controllavano le più grosse multinazionali. Il sistema economico e politico è di tipo feudale: ogni vassallo è proprietario del territorio che controlla e dei suoi abitati; questi lavorano per lui e ottengono in cambio quello che loro serve per vivere. Nessun tipo di moneta è più in vigore. I vassalli devono sottostare al volere dell’Imperatore, ma è anche vero che se lui non ha il completo sostegno di questi nuovi nobili si trova di fronte a due sole opzioni: o è abbastanza forte per eliminarli oppure la sua fine è prossima, presto sarà rimosso e i vassalli incoroneranno un successore». ALFAROLI, Archon, p. 59.
In conclusione, quantomeno a mio modesto parere, qui siamo difronte a un romanzo sci-fi d’impostazione classica, dove però alla semplice avventura, spesso dal sapore prettamente fanta-militare, si affiancano le speculazioni xeno – biologiche e le ansie per il futuro del genere umano.
Sinossi
«Trecento anni fa, un gruppo di dissidenti politici fuggirono dalla Terra a bordo di un cargo spaziale. Raggiunsero il pianeta che il nostro Imperatore ha chiamato “Arconte”. Di loro non si seppe più nulla, fino a oggi. Le nostre spie in missione osservativa occultata hanno riportato le seguenti informazioni: il leader dei fuggiaschi, Ossian Larsson, vive ancora dopo trecento anni di permanenza su quel mondo. Il pianeta è abitato da una forma di vita intelligente non ancora classificata: alieni e umani vivono in simbiosi, quindi i fuggiaschi sono da ritenersi non più umani. La nostra missione è duplice: conquistare tutto il sistema e scoprire il segreto della longevità dei ribelli. Partiamo tra una settimana…».
Terra, 24 Maggio 2968, Ammiraglio della Flotta Imperiale Terrestre Stig Hamsum.
Profilo Autore
Marco Alfaroli nasce a Livorno nel 1968, vive ormai da anni a Pisa ed è sempre stato affascinato dalla creatività artistica. Ha lavorato come modellista sculture, poi è passato alla grafica digitale, realizzando tutti i disegni di un divertente gioco per bambini. Fin da ragazzo la sua passione per la lettura l’ha accompagnato, duellando con il suo amore per il cinema… e alla fine si è messo a scrivere. Archon è il suo primo romanzo, di cui, da buon disegnatore, ha realizzato le illustrazioni in copertina. È in già in cantiere il seguito, intitolato Bhlyss, e una serie di racconti brevi Sci-Fi. Nel suo blog pubblica quotidianamente illustrazioni e fumetti (http://alfaroli.marco.over-blog.it).