ISAO TAKAHATA: L’OMBRA DELLO STUDIO GHIBLI


di Claudio Cordella

“Quel giorno ad Anna sembrò di essere cresciuta di colpo e di aver abbandonato per sempre i tempi della fanciullezza”. Akage no An (Anna dai capelli rossi), regia di ISAO TAKAHATA, 50 episodi, Giappone 1979.

Il regista Isao Takahata.

È decisamente strano il destino che sembra esser toccato in sorte al regista giapponese Isao Takahata, nato nella Prefettura di Mie il 29 ottobre del 1935, cofondatore dello Studio Ghibli con l’amico e collega Hayao Miyazaki. Viene spesso e volentieri confuso con il secondo con il quale ha effettivamente collaborato a numerosi progetti di successo. L’originale apporto artistico offerto da Takahata al mondo dell’animazione, al cinema e in televisione, è  incontrovertibile.

Ad una prima lettura ciò che salta immediatamente agli occhi leggendo la biografia di Takahata è la solida formazione culturale di quest’autore, dotato di un bagaglio di conoscenze umanistiche di prim’ordine. Fin da bambino il nostro mostra un precoce interesse per letteratura e musica, una volta cresciuto ha modo di iscriversi all’Università di Tokyo, uno degli atenei più prestigiosi dell’intero Giappone, dove il nostro studia letteratura francese laureandosi nel 1954.

Uno degli autori che Takahata preferisce è il poeta Jacques Prévert (1900–1977), di cui cura personalmente la traduzione delle opere in lingua giapponese. Durante gli anni degli studi Takahata inizia anche ad interessarsi al cinema ed in particolare a quello francese arrivando a conoscere i lavori di   Prévert in qualità di sceneggiatore. Nel 1953, pur se in forma incompleta e disconosciuto dai suoi creatori, esce in Francia, per poi approdare due anni dopo in Giappone, il film d’animazione La bergère et le ramoneur (La pastorella e lo spazzacamino). Si tratta di un’opera complessa, ispirata da una fiaba di Hans Christian Andersen (1805 – 1875), nata dalla collaborazione tra Prévert e il regista Paul Grimault (1905-1994). Uscirà in forma definitiva solo nel ’76 con il titolo Le roi et l’oiseau (Il re e l’uccello) e influenzerà moltissimo la crescita artistica di Takahata. Fu infatti proprio questo progetto a spingere il nostro ad interessarsi di animazione.

Alcuni anni dopo essersi laureato, nel 1959, Takahata entra a far parte della casa di produzione Toei Animation, allora nota con il nome di Toei Doga, in qualità di aiuto-regista. Gli anni ’50 e ’60 vedono lo sviluppo dell’animazione nipponica sia al cinema che in televisione, in quest’ultimo caso sopratutto con produzioni decisamente grezze che vengono realizzate in gran fretta. Si tratta di una realtà nuova, dal punto di vista creativo che commerciale, a cui Takahata inizia ad offrire il suo contributo. Mentre è un dipendente della Toei, Takahata ha modo di fare conoscenza con due brillanti animatori: Miyazaki e Yasuo Ōtsuka; entrambi portatori di nuove idee rivoluzionarie, convinti che l’animazione del Sol Levante non debba essere una sorta di eterna scopiazzatura delle produzioni statunitensi della Disney. La fine degli anni ’60 è il momento della grande svolta. A Takahata viene offerta la regia di un lungometraggio tutto suo: Taiyō no ōji – Horusu no daiboken (letteralmente: Il principe del sole – La grande avventura di Horus); un film epico ambientato in un favolistico estremo Nord dove si scontrano il Bene e il Male. Ad affiancare Takahata in questa sua nuova avventura spiccano i già citati Ōtsuka, come character design, cioè creatore delle fattezze dei personaggi, e Miyazaki in qualità di responsabile dei fondali e di parte della stessa animazione.

Taiyō no ōji - Horusu no daiboken. Poster giapponese del film.

Questa raffinata pellicola, giunta in Italia il decennio seguente con il grottesco titolo di La grande avventura del piccolo principe Valiant, corretto in seguito in Il segreto della spada del sole, fu in patria un vero insuccesso. La lotta del giovane eroe Horus (Hols traduzione nostrana) contro il malvagio Signore dei Ghiacci Grunwald, il suo amore per la bella Hilda, sorella del secondo, dall’animo fondamentalmente buono e pronto al pentimento, ambientata in uno scenario selvaggio e affascinante, non attirò il pubblico nipponico delle sale. Il segreto della spada del sole, uscito nei cinema il 12 luglio del ’68, dopo ben 3 anni di lavorazione, ottenne sì delle critiche positive, fu un tale flop commerciale che la Toei fu costretta a ritirarlo dopo solo dieci giorni di programmazione. La colpa di Takahata, se così può dire, non nasceva tanto dalla sua immaturità come regista, ma al contrario proprio dal suo profondo desiderio di creare un prodotto d’animazione adulto, completo e nient’affatto infantile. Fu la Toei ha chiedere, inutilmente, una pellicola dedicata ad un pubblico di bambini ottenendo semplicemente una collocazione geografica in una non ben determinata regione dell’Europa settentrionale. Al contrario Takahata, desideroso di seguire gli insegnamenti di Grimault riguardanti la creazione di un contesto sociale e culturale ben determinato, volle ispirarsi al folklore del popolo degli Ainu (01), già alla base di un soggetto per una pièce per il teatro delle marionette a cui egli poté attingere. Da questo momento in poi, se l’affiatamento tra Takahata e Miyazaki cresce, i due diventano però delle presenze poco gradite alla Toei così entrambi accettano l’invito, rivolto loro da parte di  Ōtsuka, di raggiungerlo alla A Production, un’affiliata della Tokyo Movie.

Horus (Hols) e la sua spada.

 Dagli anni ’70 in poi Takahata, ha occasione di lavorare per alcune serie televisive d’animazione che entreranno letteralmente nella storia. Nel ’71 affianca alla regia Miyazaki quando a quest’ultimo subentra alla direzione della serie Rupan Sensei (Le avventure di Lupin III); una versione nipponica del ladro gentiluomo francese ancor oggi di grande successo. In seguito il nostro ha occasione di cimentarsi con un ciclo della Nippon Animation, il World Masterpiece Theater, noto anche come Sekai meisaku gekijō (Teatro dei capolavori mondiali) o più brevemente Meisaku; tale serie, continuata sino ad oggi, pur se dopo una lunga pausa, presentava dei prodotti d’animazione di alta qualità volti ad offrire al pubblico nipponico celebri romanzi per ragazzi sotto forma di anime.  La prima prova di Takahata è un autentico capolavoro, conosciutissimo e amatissimo anche in Italia: Arupusu no Shōjo Haiji (letteralmente Heidi delle Alpi), noto nel nostro paese semplicemente come Heidi. Sono 52 gli episodi trasmessi dalla nipponica Fuji TV dal 6 gennaio al 29 dicembre del ’74; tale anime a dire il vero non fa tanto parte della World Masterpiece Theater quanto piuttosto ne fa da apripista convincendo i produttori nella bontà della sua realizzazione. (Per l’esattezza all’epoca la Nippon Animation si chiamava ancora Zuiyo Eizo e Heidi fu realizzata assieme alla tedesca Taurus). Miyazaki in questo caso collaborò con Takahata realizzando fondali e layout, cioè la composizione scenografica degli ambienti. Il risultato è un autentico gioiello, certo non paragonabile per budget e raffinatezze tecniche agli anime più recenti, ma dotato di un stile semplice, elegante, inconfondibile che ne hanno fatto a ragione un evergreen.

Takahata, pur seguendo abbastanza fedelmente i romanzi della scrittrice svizzera Johanna Spyri (1827 – 1901), riesce a dare un tocco personalissimo al personaggio di Heidi e alle sue vicende. Quest’ultima, un orfanella di soli cinque anni, è costretta prima ad andare a vivere con un nonno misantropo tra i monti per poi a trasferirsi nella grande città di Francoforte, in qualità di dama di compagnia della ricca Clara Seseman, una ragazzina costretta a vivere su una sedia a rotelle dopo una malattia. Se la vita nella baita sarà un occasione per Heidi di intenerire il cuore del vecchio nonno e di avvicinarsi alla natura, possente e al tempo stesso incantevole, la vita cittadina sarà al contrario un autentico supplizio per lei. Indubbiamente a Francoforte ella sarà in grado di farsi un’amica, Clara, che aiuterà nel suo percorso di guarigione, ma le lotte con l’arcigna signorina Rottenmeier, l’istitutrice di casa Seseman, sono saranno quotidiane e sfibranti. Si tratta a parare di alcuni critici di un’autentica “guerriglia” messa in atto dalla piccola Heidi, insofferente alle numerose regole del vivere cittadino: “Quella di Heidi non è una «guerra esclusiva» contro gli adulti, perché sa che prima o poi anche lei diventerà grande; tuttavia l’intento principale della piccola orfana è quello di evidenziare i paradossi insiti in una forma di educazione infantile che predilige l’immobilismo alla vivacità, la punizione assoluta alla spiegazione, insomma le rigide leggi senza logica contro il buon senso. Siamo fin dall’inizio della vicenda convinti dell’impossibilità di una  «vittoria psicologica» da parte della Rottnmeier su Heidi”. MARCO PELLITTERI, Mazinga nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake-generation, ed. Castelvecchi, Roma 1999, p. 335.

L'ultima struggente scena del film Una tomba per le lucciole. I due innocenti, vittime della guerra, sono ormai degli spettri.

Dopo Heidi è la volta per un altro classico della lettura di diventare un pilastro della storia degli anime, Akage no An (Anna dai capelli rossi); 50 episodi trasmessi dalla Fuji TV dal 7 gennaio al 30 dicembre del ’79 e sbarcato per la prima volta in Italia su Rai 1 il 20 ottobre ’80. Si tratta, analogamente al caso di Heidi, di un anime molto amato e conosciuto nel nostro paese.  La fonte primaria di ispirazione questa volta è offerta dal romanzo Anne of Green Gables (Anna dai capelli rossi) della scrittrice canadese Lucy Maud Montgomery (1874 – 1935), fedelmente seguito, tranne in qualche raro episodio di trascurabile importanza, nella trasposizione animata. Takahata, sostituito alla regia da Shigeo Koshi solo per gli episodi 43 e 47, riesce a dare una grande prova d’autore. La storia di Anna (o Anne) Shirley, orfana della Nuova Scozia che viene adottata dagli anziani fratelli Marilla e Matthew Cuthbert, viene raccontata con magistrale bravura sia dal punto di vista dell’animazione che della caratterizzazione dei personaggi. Anna è una ragazzina che è stata profondamente segnata dalla vita, rimasta presto sola al mondo, sballottata da una famiglia all’altra, ha trovato nella fantasia la sua unica via di fuga. Con il tempo Anna, una volta trasferitasi nella fattoria dei Cuthbert, la casa dal “Tetto Verde” nei pressi della cittadina rurale di Avonlea nell’isola di Prince Edward, imparerà ad affrontare il mondo reale senza più abbandonarsi ai suoi infantili sogni ad occhi aperti. La crescita di Anna, da ragazzina gracile, insicura e sognante a giovane donna forte, decisa e determinata, diventa il fulcro dell’intero anime. Lo stesso intenerirsi del cuore di Marilla, da donna pragmatica ma dall’animo chiuso, ad autentica madre adottiva per Anna, scandisce l’evolversi degli avvenimenti della serie. Matthew al contrario appare come un personaggio maggiormente statico che, solitario e silenzioso, vorrà bene alla piccola orfanella sin dal primo momento. Accanto alle vicende quotidiane dei protagonisti, che studiano, lavorano, giocano, litigano, conducono insomma le loro esistenze che ci vengono accuratamente raccontate, c’è pure il succedersi ciclico delle stagioni, anch’esso portato sullo schermo con rara accuratezza e maestria. Il giudizio complessivo su  Anna dai capelli rossi non può dunque che essere positivo: “La bellezza degli sfondi sempre luminosi, le tonalità pastello che colorano delicatamente i paesaggi, gli abiti e i personaggi, una regia attenta, un character design ben studiato e pieno di espressività ne fanno un piccolo capolavoro”. PELLITTERI, Mazinga nostalgia, p. 337.

Anna dai capelli rossi.

 Il terzo anime della serie  World Masterpiece Theater a cui Takahata lavorò, ambientato nel secolo 19° come i suoi predecessori, fu Haha wo Tazunete Sanzen Ri (letteralmente Tremila miglia alla ricerca della mamma), tratto dal racconto Dagli Appennini alle Ande, contenuto nel romanzo Cuore dello scrittore nostrano Edmondo de Amicis (1846 – 1908). Trasmesso, come i due anime precedenti, dalla Fuji TV dal 4 gennaio al 26 dicembre per un totale di 52 episodi, apparve in Italia per la prima volta su Rai 1 il 20 ottobre 1980. Accanto a Takahata, nell’ormai consueto ruolo di regista, spiccano i nomi di Miyazaki, come responsabile per le scenografie, mentre tra gli sceneggiatori notiamo quello di Yoshiyuki Tomino, più tardi assunto al rango di senseidell’animazione giapponese in quanto creatore della saga di Gundam. Gli anni ’80 vedono il nostro ritornare nei cinema con dei lungometraggi tutti suoi; nel ’82 prima con Sero hiki no Gōshu (Gōshu il violoncellista), tratto da un racconto dello scrittore Kenji Miyazakawa, poi nello stesso anno con Jarinko Chie (Chie la piccola monella). Si tratta in entrambi i casi di pellicole surreali se non proprio comiche; ad esempio il nome del violoncellista Gōshu non è altro che la traslitterazione in lingua giapponese del francese gauche, maldestro. Tre anni dopo, in collaborazione con Miyazaki, è la volta della nascita dello Studio Ghibli; così accade che nel 1987 Takahata produca uno dei film di maggior successo dell’amico, Tenku no shiro Rapyuta (Laputa: castello nel cielo) e che viceversa quest’ultimo nel medesimo anno faccia lo stesso nei confronti di un documentario del suo socio, Yanagawa horiwari monogatari (Storia del canale di Yanagawa).

Il violoncellista Goshu.

L’anno dopo Takahata porta nei cinema la sua opera più commovente, intensa e struggente: Hotaru no haka (Una tomba per le lucciole), basata sull’omonimo romanzo, parzialmente autobiografico, di Akiyuki Nosaka. Il film pur partendo da un presupposto fantastico: un fantasma che narra gli eventi che lo condussero alla morte, rimane un’opera iperrealistica che descrive in maniera cruda, quasi documentaristica, le sofferenze del giovane Seita e della sua sorellina Setsuko durante gli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale, poco prima della definitiva sconfitta del Giappone. Una tomba per le lucciole è un incredibile capolavoro capace di mescolare tra loro scene di infinita crudezza con altre di sconfinata tenerezza. Le prime inquadrature del film si aprono con gli ultimi istanti di vita di Seita; completamente allo stremo si lascia morire, solo e abbandonato da tutti, nel bel mezzo della stazione ferroviaria della città di Kobe, tra la folla indifferente. In mano Seita stringe una scatoletta metallica contenente le ceneri di Setsuko, che un uomo delle pulizie, dopo aver constatato la morte del ragazzo, getta via senza troppi complimenti. È allora che gli spiriti dei due poveri innocenti possono finalmente rincontrarsi e Seita inizia il suo lungo e straziante flashback; la morte della madre, già debole e malata di cuore, durante i bombardamenti, la cattiveria dei parenti, la necessità di doversi occupare da solo del benessere di Setsuko, il comprendere che il padre non tornerà mai più dal fronte, la fame, le percosse, la stessa scomparsa della sorellina e infine il suo stesso abbandonarsi ad una fine inevitabile.

Seita e la sorellina Setsuko, i protagonisti di Una tomba per le lucciole.

Dopo aver raggiunto un simile vertice creativo, difficilmente eguagliabile, Takahata offre ai suoi fans nel 1991 Omohide poro poro (Ricordi goccia a goccia, conosciuto con il titolo internazionale di Only Yesterday), un viaggio sentimentale, nello spazio ma sopratutto nella memoria, capace oltretutto di offrire un interessante spaccato della condizione femminile nella società giapponese. Gli ultimi due lavori di questo maestro del cinema appartengono anch’essi all’ultimo scorcio del secolo passato: il fiabesco Heisei tanuki kassen ponpoko (Pompoko, le battaglie dei tanuki moderni) del ’94 e l’umoristico Hōhokekyo tonari no Yamada-kun (Ti presento i miei vicini, i signori Yamada) del ’99, sorta di rappresentazione satirica della famiglia media nipponica. Invece Pompoko (02), tratto da un racconto di Kenji Miyazawa, lo stesso autore che ispirò a Takahata Gōshu il violoncellista, è una sorta di fantasy brillante che riscosse un grande successo sia in patria che all’estero; in Francia venne premiato lo stesso anno in cui uscì al Festival di Annecy come miglior lungometraggio. Nel film i tanuki, animali simili ai procioni ma appartenenti in realtà alla famiglia dei canidi, possiedono secondo il folklore giapponese la magica capacità di cambiar forma per ingannare gli umani e confondersi tra loro. Un gruppo di loro decide di dar via ad una sorta di guerriglia per riconquistare la collina di Tama, nei pressi della città di Tokyo, da cui i tanuki son stati scacciati per permettere la costruzione di un quartiere residenziale. Come si può ben vedere Takahata, prendendo a piene mani dalle tradizioni del suo paese, dà vita ad una storia divertente e al tempo stesso intrisa di un importante messaggio ecologico.

Heisei tanuki gassen Ponpoko.

Questo gioiellino del fantastico, purtroppo sino ad oggi inedito in lingua italiana, sarà disponibile su DVD a partire dal febbraio 2011. Nell’asfittica realtà cinematografica nostrana troppi film nipponici, pur se di gran valore artistico, sin troppo spesso non approdano nelle sale di proiezione, costringendo l’appassionato a ricorrere al mercato dell’home-video. Per fortuna il rinato interesse per le produzioni dello Studio Ghibli, di cui Takahata costituisce a buon diritto l’anima alla stessa stregua di Miyazaki, ci permette di sperare che non mancheranno il futuro le occasioni per far conoscere meglio questo complesso autore al pubblico italiano.

Taeko Okajima, la giovane donna protagonista di Omohide poro poro

Note

(01) Con il termine Ainu si intende una popolazione dell’isola giapponese di Hokkaidō nel nord del Giappone, dell’isola russa di Sachalin e della costa prospiciente. Solo alcuni Ainu attualmente parlano il loro idioma tradizionale mentre la maggior parte di loro ha adottato usi, costumi e lingua giapponesi o russi. Si noti che gli Ainu, sino al 19° secolo, conservarono una struttura tribale e che i giapponesi chiamavano l’isola di  Hokkaidō con il nome di Ezo, cioè Isola dei selvaggi.

(02) Pompoko è un termine onomatopeico della lingua giapponese impossibile da tradurre in italiano, indica il suono che produrrebbero i tanuki mentre percuotono i loro stomaci vuoti come se fossero dei tamburi. Quest’ultima è una credenza appartenente al folklore assai diffusa in Giappone.

Assemblea di tanuki.


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