I RIMOSSI – LA NOTTE DELLA SVASTICA DI KATHARINE BURDEKIN


 

Ucronia, distopia, fantapolitica: certamente l’impulso primo del lettore sarebbe quello di ricondurre queste tre definizioni – non difficilmente sfocianti l’una nell’altra – all’operato dello scrittore anti-utopico più celebre, ovverosia il George Orwell di 1984. Senza nulla togliere ai meriti indiscutibili dell’autore e giornalista inglese, andrebbe tuttavia sottolineato come il successo della fantapolitica, quanto quello della distopia ucronica, debba molto all’operato di Katharine Burdekin, autrice nel 1937 del romanzo misconosciuto La notte della svastica: ambientato circa 700 anni dopo l’avvento di Hitler e la vittoria del nazismo, il racconto inscena un mondo futuro spaccato tra due potenze rivali, quella tedesca e quella giapponese, costantemente impegnate a contendersi il dominio assoluto a suon di guerre inesauribili; idea che di fatto anticipa non solo lo stesso 1984, bensì altri celebri romanzi ucronici basati sul nazismo come Fatherland di Robert Harris e La svastica sul sole di Philip K. Dick.

Le lampanti specularità con il romanzo orwelliano non si arrestano qui: oltre alla lacerazione degli equilibri socio-politici causata dall’invadenza degli unici due imperi rimanenti, il futuro distorto della Burdekin non conosce cultura né storia, non ha memoria del passato se non per le poche, inquinate informazioni che al popolo vengono concesse, i legami affettivi come quelli tra coniugi o tra madre e figlio sono ormai inconcepibili, il popolo ebreo si è estinto; soprattutto, come in 1984, un’ipotetica quanto remota redenzione risulta impossibilitata dal tentativo riuscito del totalitarismo di cancellare qualsiasi cosa trascendesse da esso.

La notte della svastica è tutto questo ed anche di più, perché dagli intenti dell’autrice fanno capolino non solo le necessarie riflessioni sui pericoli del nazismo e di una sua possibile vittoria, ma le connessioni non sempre direttamente avvertite tra l’instaurarsi dei regimi totalitari e il prevalere di una diffusa misoginia, la stessa che nel 720 dopo Hitler motiva la relegazione delle donne nei lager, lo sfruttamento del loro corpo al solo fine procreativo, la negazione del ruolo materno nei confronti dei figli maschi, a loro strappati in tenera età; infine, la privazione di qualsiasi diritto o dignità per esseri ormai ridotti al grado di bestie.

Conseguenza di ciò non è solo la regressione ad un sistema patriarcale dei più asfissianti, ma la considerazione di un clima omo-erotico divenuto pervasivo nelle società totalitarie; considerazione questa che fu anche del nostrano Carlo Emilio Gadda, autore nel 1945 del saggio Eros e Priapo, un’acuta interpretazione in chiave psicanalitica dell’avvento del fascismo e ancor di più del consenso plebiscitario di cui il Duce godette: rielaborando intelligentemente le teorie freudiane sul carisma dei leader e sulla psicologia delle masse, lo scrittore milanese non trovò altra risposta al successo di Mussolini che ipotizzando una sorta di innamoramento collettivo nei suoi confronti, vale a dire una tensione erotica assai determinante, stabilitasi tra la figura affascinante del Duce e le folle da lui arringate. Insomma, un vero e proprio legame libidico che non rovescerebbe affatto le sue responsabilità sulla sola sfera femminile, ma al contrario vedrebbe buona parte delle sue spinte nell’estetica machista del regime, in quel culto della mascolinità tanto ostentato da concludersi senza troppe difficoltà non solo nell’omosessualità latente, ma ancor di più nel disprezzo generalizzato per la donna che avrebbe creato i presupposti del ventennio fascista.

Impossibile non ritrovare nelle idee di Gadda gli stessi meccanismi tracciati ne La notte della svastica, dove gli unici legami affettivi realmente fervidi sono quelli tra uomini – in primis quello tra Hermann ed Alfred – dove la figura lontana di Hitler è stata sublimata senza difficoltà in quella di un dio altero e bellissimo su cui riversare l’adorazione dei popoli, e dove persino la sessualità è più sana se rivolta verso individui dello stesso sesso, piuttosto che verso quegli abomini che le donne sono state costrette a diventare.

Non c’è totalitarismo senza misoginia: questo, in definitiva, il messaggio fondamentale di Katharine Burdekin.

Recensione a cura di Alessandra Sorvillo

STILE E TECNICA
ORIGINALITA'
PERSONAGGI
GESTIONE DELLA TRAMA
COPERTINA
VOTO PERSONALE
Final Thoughts

Overall Score 4.7