L’ARCHEOLOGIA DEI SOGNI


di Claudio Cordella

«Il successo dei libri di Däniken si basa sul fatto che egli si rivolge, dietro la copertura di argomenti scientifici, alla fantasia e alla credulità di persone ignare della metodologia scientifica e sensibili a soluzioni stupefacenti. Il successo dell’autore è tanto più certo quanto più può ‘esibire’ verso i veri scienziati un reciso rifiuto. Il suo metodo di lavoro è quanto mai semplice: scorre la bibliografia scientifica, ma solo le parti illustrate, mentre i testi lo interessano meno». HERBERT WILHELMY, Welt und Umvelt der Maya, 1981; tr. it. La civiltà dei Maya, Laterza, Roma – Bari, 1985, pp. 524 – 525.

Gli storici e gli archeologi son stati forse sin troppo disattenti, se non pigri, nel ribattere agli archeologi del mistero, autori di teorie pseudo-scientifiche del tutto prive di fondamento, risibili e infantili ma al tempo stesso di grande impatto verso il grande pubblico. Gli accademici commettono l’errore di pensare che sia una perdita di tempo rispondere adeguatamente, in modo semplice e chiaro, a chi ritiene che le piramidi siano state costruite dagli atlantidei, se non dagli extraterrestri, che il sito di Nazca sia stato uno spazioporto di UFO, etc. Il guaio è che le scempiaggini dell’archeologia misteriosa, come gli astronauti alieni e le super-civiltà preistoriche, non solo rendono impossibile una genuina comprensione del patrimonio culturale dell’umanità ma esse si sono diffuse come un virus psichico nella cultura popolare contemporanea. I mass-media, sempre alla ricerca di tutto ciò che può attirare l’attenzione del pubblico e far alzare gli indici d’ascolto, sono saliti da tempo sul carro del vincitore.

Le “lampade di Dendera” (Egitto), secondo gli archeologi del mistero testimonierebbe l’esistenza di una passata super-civiltà. In realtà si tratta della raffigurazione di un fiore di loto.

Nel nostro paese un network come Focus, nato appena il 28 luglio 2012 come una sorta di versione televisiva dell’omonima rivista, pur essendo un canale imperniato sulla divulgazione non ha esitato a inserire nella sua programmazione una serie a carattere pseudo-scientifico come Ancient Aliens (Enigmi alieni). Quest’ultima venne trasmessa regolarmente per la prima volta negli Stati Uniti da The History Channel nel 2010 (dopo un pilot del 2009), attirando su di sé l’attenzione del noto cartoon satirico South Park. All’interno del tredicesimo episodio della stagione numero quindici, A History Channel Thanksgiving (La storia del giorno del Ringraziamento), non ritroviamo solo una parodia del film di supereroi Thor ma anche di Ancient Aliens, mettendo alla berlina tutte le surreali ipotesi dell’archeologia eterodossa ivi contenute. Nell’esilarante finale, gli “esperti” di History Channel riescono a provare la presenza di extraterrestri durante la celebrazione del primo giorno del Ringraziamento, non contenti iniziano subito a ipotizzare la presenza di spettri! L’intento del duo creatore di South Park, Trey Parker e Matt Stone, ci sembra essere palese: puntare l’indice verso quella marea montante di irrazionalismo che attualmente gode di uno straordinario successo.

Persino il noto cineasta sir Ridley Scott, giunto a fame mondiale in seguito a capolavori del calibro di Alien e Blade Runner, ha voluto attingere a piene mani al bagaglio delle pseudo-scienze, in particolare proprio alla “teoria degli antichi astronauti”, per il suo orrendo film-pastrocchio Prometheus (http://www.fantasyplanet.it/2013/03/12/la-fantabiologia-dai-mondi-perduti-a-prometheus-03/). Già negli anni ’20 – ’30 però Howard Phillips Lovecraft (1890-1937), l’inventore del cosmic horror (“orrore cosmico”), con i suoi racconti appartenenti al “mito di Cthulhu” ci aveva regalato degli ottimi esempi di fusione tra archeologia e sci-fi. In particolare nel bellissimo romanzo At the Mountains of Madness (Le montagne della follia), pubblicato nel febbraio-aprile del ’36 sulla rivista Astounding Stories, ritroviamo una minuziosa descrizione delle rovine di una metropoli vecchia di eoni: «Gli edifici non erano affatto uniformi: c’erano numerosi “alveari” di proporzioni gigantesche ma anche strutture separate più piccole. La forma generale degli edifici era conica, piramidale o a terrazze, anche se non mancavano cilindri perfetti, cubi perfetti, ammassi di cubi e altre forme rettangolari, e ogni tanto strutture angolose il cui piano a cinque punte suggeriva l’aspetto di moderne fortificazioni. I costruttori avevano usato costantemente e con perizia il principio dell’arco, e all’epoca del massimo splendore della città erano esistite probabilmente cupole. Il groviglio di pietra era terribilmente logorato dalle intemperie e la superficie di ghiaccio su cui svettavano le torri era cosparsa di blocchi caduti e detriti antichissimi. Dove la glaciazione era trasparente potemmo vedere le parti inferiori delle enormi strutture e notammo i ponti di pietra conservati nel ghiaccio che collegavano varie torri a diverse altezze. Sulle mura esposte scorgemmo le intaccature che corrispondevano all’estremità di ponti simili, ora scomparsi. […] Ovviamente molte delle rovine erano senza tetto, con i bordi superiori irregolari anche se arrotondati dal vento; altre, di forma conica o piramidale e protette da strutture più alte che sorgevano intorno, mantenevano intatta la forma originaria nonostante le inevitabili tracce di deterioramento e rovina». Le montagne della follia, in H. P. Lovecraft. Tutti i racconti 1931 – 1936, a cura di GIUSEPPE LIPPI, Mondadori, Milano 1992, p. 120.

Si tratta di un sito d’origine extraterrestre, edificato in Antartide da alieni calati milioni di anni fa sulla Terra, che viene casualmente scoperto dagli scienziati di una spedizione polare. Vi ritroviamo anche l’idea di un’influenza aliena nello sviluppo della vita sul nostro pianeta, che è presentata come l’inutile sottoprodotto di esseri per noi incomprensibili. Nell’universo degli anime, autori di grido come il lungometraggio d’animazione di Hayao Miyazaki (Tenkû no shiro Rapyuta, Laputa: castello nel cielo, ’86) e Hideaki Anno (noto per gli anime televisivi Fushigi no Umi no Nadia, Il mistero della pietra azzurra, ’89 – ’91; Shin seiki Evangerion, Neon Genesis Evangelion, ’95 – ’96), hanno anch’essi attinto a piene mani, seppur con la dovuta attenzione, al bagaglio di illusioni dei moderni profeti dell’irrazionalità.

Negli anni ’60 già Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke, avevano inserito elementi fanta-archeologici nella sceneggiatura del cult 2001: Odissea nello spazio (2001: Odissea nello spazio, 1968); distaccandosi comunque dal basso profilo scientifico delle tesi degli archeologi del mistero. Il duo Kubrick e Clarke ha tenuto accuratamente in considerazione un fattore ben preciso a cui gli stregoni del paleocontatto non hanno mai pensato: l’età della nostra galassia. La Via Lattea ha ben dieci miliardi di anni mentre il nostro pianeta, che orbita attorno a un giovane sole giallo, ha solo poco più di quattro miliardi di anni. Di conseguenza eventuali civiltà aliene non solo sarebbero più progredite della nostra ma risalirebbe molto più indietro nel tempo. Il primo monolito nero che appare in 2001: Odissea nello spazio ha modo di incontrare i nostri antenati ominidi e di influenzarne l’evoluzione mentre il secondo, scoperto sotterrato al di sotto della superficie lunare, se ne sta lì nascosto da almeno tre milioni di anni (01).

I paleo-visitatori extraterrestri che fanno capolino in Enigmi alieni, così come in tutta la pseudo-saggistica del genere, vengono invece descritti di solito come dei turisti interstellari approdati sul nostro scopo appena qualche migliaio di anni fa; come ha acutamente notato lo scienziato Edward Ashpole, essi non sono abbastanza antichi!(02). Inoltre le probabilità di un contatto nel breve spazio di così pochi millenni, dal punto di vista del calcolo delle probabilità, risulta essere assai esiguo: «Ora, stando alla maggior parte dei giornali e dei libri che li hanno resi popolari, gli astronauti dell’antichità sono giunti quaggiù negli ultimi 4.000 anni della storia umana. Quindi, la probabilità di una loro visita in questo periodo piuttosto che in qualsiasi altro momento nella storia della Terra è 4.000 anni su 4 miliardi. È lo stesso di 1.000 su un miliardo, che, a sua volta, è lo stesso di uno su un milione. In altre parole, perché anche una sola visita sia statisticamente possibile in tempi storici (negli ultimi 4.000 anni) bisognerebbe che un milione di ETI fossero venuti sulla Terra dall’epoca della sua formazione!». ASHPOLE, SETI, pp. 115 – 116.

La posizione di Ashpole coincide con quella della comunità scientifica internazionale che continua, giustamente, a non tenere minimamente in considerazione gli “antichi astronauti”. Al contrario, i lettori di giornali e il pubblico televisivo subiscono ancora il fascino di queste suggestive, quanto oniriche, teorizzazioni. In Italia, l’esempio supremo di megafono dell’archeologia del mistero ci viene offerto da Voyager, trasmissione che da un decennio diffonde su Rai 2 il tipico armamentario ideologico delle pseudo-scienze. Il conduttore è Roberto Giacobbo, già in precedenza coautore di un prodotto televisivo analogo (Stargate – Linea di confine) per Telemontecarlo. Il successo di Voyager, il quale gode dal 2009 del patrocinio del Ministero dei Beni culturali ed è approdato anche in edicola con un magazine, brilla quale dimostrazione dell’ascesa della scienza eterodossa. Comunque l’unica maniera per contrastare le argomentazioni di questi sedicenti archeologi, le cui teorie hanno la stessa scientificità del creazionismo(03), rimane quella di impiegare le sole armi che possono servire a combatterli: la logica e il metodo scientifico, unite a una corretta divulgazione (http://www.fantasyplanet.it/2011/11/29/ricreare-il-passato-immaginare-il-futuro-introduzione/).

Roberto Giacobbo, il conduttore di Voyager.

Contribuisce invece alla diffusione di un’immagine distorta del nostro passato il romanziere Dan Brown (The Da Vinci Code, Il codice Da Vinci), i quale applica con spregiudicatezza le corbellerie delle pseudo-scienze. Brown, se gli si fa notare la quantità impressionanti di errori(04) contenuti nel suo Il codice Da Vinci, fa cortesemente presente come egli scriva solo delle opere di fantasia. Da questo di vista il ragionamento del famoso scrittore non fa una grinza. Nel regno dell’immaginario c’è spazio anche per le conoscenze esoteriche, le società segrete e gli albini assassini. Il guaio è che costui, appena finito di proclamare la natura fittizia della sua opera, è solito ricominciare le sue roboanti pretese di avere scoperto qualche verità ignota i più. Un atteggiamento ambiguo, per non dire peggio, che è riuscito a suscitare le perplessità persino di Giacobbo di Voyager. Comunque vorrei ricordarvi come Umberto Eco nel suo splendido Il pendolo di Foucault (1988), abbia da tempo demolito sin dalle fondamenta i patetici ragionamenti di chi vorrebbe riscrivere l’intero corso degli eventi della storia alla luce di complotti, sette, cifre, simboli occulti e vaneggiamenti esoterici. Il celebre intellettuale, con non poca dose di ironia, non esita persino a dare dell’alienato al tipico sostenitore delle tesi archeo-misterico-complottiste: «Il matto lo riconosci subito. E uno stupido che non conosce i trucchi. Lo stupido la sua tesi cerca di dimostrarla, ha una logica sbilenca ma ce l’ha. II matto invece non si preoccupa di avere una logica, procede per cortocircuiti. Tutto per lui dimostra tutto. Il matto ha una idea fissa, e tutto quel che trova gli va bene per confermarla. Il matto lo riconosci dalla libertà che si prende nei confronti del dovere di prova, dalla disponibilità a trovare illuminazioni. E le parra strano, ma il matto prima o poi tira fuori i Templari». UMBERTO ECO, Il pendolo di Foucault, Bompiani, Milano 1988, p. 44.

Come dargli torto? I Templari saltano fuori sia nella narrativa alla buona di Brown, sia nelle irrazionali farneticazioni degli eterodossi studiosi del passato. Per questi ultimi tutto quanto fa brodo, UFO, Maya, Egizi e Templari, son buttati in un unico calderone, procedendo sempre per associazione simbolica, per mera apparenza e con infinita disinvoltura. Non esiste un vero metodo scientifico per raccogliere ed esaminare i dati, questi moderni stregoni procedono mettendo assieme dicerie, congetture come se si trattasse di fatti assodati.

Ipotetica mappa di Atlantide presente nel Mundus Subterraneus di Athanasius Kircher (1665).

Charles Berlitz (1914 – 2003), il quale raggiunse la notorietà negli anni ’70, dopo la pubblicazione di un suo libro sul Triangolo delle Bermuda (The Bermuda Triangle, Il triangolo maledetto, 1974), ci offre un brano illuminante riguardo al suo modus operandi, tipico dei venditori di fumo par suo, mentre tenta di dimostrare l’esistenza di Atlantide(05). La grande isola di cui scrisse il filosofo greco Platone, all’interno dei dialoghi Timeo e Crizia, quest’ultimo pervenutoci incompleto, viene legata a leggende, popoli e località geografiche assai diverse tra di loro in maniera assai superficiale: «La parola Atlantide risale al mondo greco – romano, i cui scrittori erano discretamente familiari con l’idea dell’esistenza e della localizzazione geografica del continente perduto. Le tribù dell’Africa nord-occidentale venivano chiamate dagli antichi scrittori Atalanti, Ataranti; mentre in Età Classica si riferiva ad esse come ai superstiti dei dominatori venuti da Atlantide o come ai popoli colonizzati: Atlantoi. Le tribù berbere del Nord Africa si tramandano la leggenda di Attala, bellicoso reame al largo delle coste al largo delle coste africane ricco di miniere d’oro, d’argento e di stagno, che inviava in Africa non soltanto questi metalli pregiati ma anche i propri eserciti. Secondo i Berberi, Attala si trova oggi sotto l’oceano, ma una loro profezia vuole che un giorno il mitico regno ricomparirà. Gli antichi Galli, così come i Celti dell’Irlanda, del Galles e dell’Inghilterra, credevano che i loro antenati provenissero da un continente inabissatosi nel Mare Occidentale, ed i Gallesi e gli Inglesi chiamarono Avalon questo paradiso perduto». CHARLES BERLITZ, Atlantis. The Eight Continent, 1984; Atlantide. L’Ottavo Continente,Edizioni Mediterranee, Milano 1987, p. 28.

Alla fine il nome Atlantide finisce con l’indicare qualsiasi cosa, lo stesso Berlitz, che di formazione era un linguistica e avrebbe dovuto dimostrarsi capace di maggior rigore scientifico, finì con il collocarla praticamente ovunque elencando un’infinita serie di possibilità geografiche che includevano pure il Brasile e la Nigeria. Il tipico teorico eterodosso né porta avanti scavi nei siti archeologi, preferendo invece interpretare a modo suo i frutti dell’altrui fatica, nè osa addentrarsi in profondità nei concetti: egli si muove sulla superficie delle cose, limitandosi alle mere apparenze e alle grossolane somiglianze.

Erich von Däniken

Tra questi ciarlatani, credibili quanto coloro che propinano rimedi miracolosi contro la calvizie e l’obesità, spicca senz’altro Erich von Däniken, svizzero, classe 1935, considerato uno dei creatori della teoria degli “antichi astronauti” (paleocontatto o paleoastronautica) assieme a Zecharia Sitchin (1920 – 2010), noto per The 12th Planet (Il pianeta degli dei, ’76), e a Joseph Blumrich (1913 – 2002), il cui best-sellers è The Spaceships of Ezekiel (Le astronavi di Ezechiele, ’74). Ashpole ha preso in considerazione l’ipotesi di Blumrich, il quale aveva ricoperto il ruolo di responsabile dell’ufficio Progettazione Sistemi del Marshall Space Flight Center della NASA, sono per demolirla totalmente (ASHPOLE, SETI, pp. 171 – 174) arrivando alla conclusione che l’ingegnere statunitense avesse lavorato di fantasia. Possiamo concludere che il suo The Spaceships of Ezekiel, più che contenere la descrizione di alcuni “incontri ravvicinati del terzo tipo”, avvenuti tra il profeta biblico Ezechiele e degli extraterrestri, ci presenta la ricostruzione di un’astronave vecchia di 2500 anni esistente solo nella sua mente. Le elucubrazioni di Sitchin, relative alla genesi della specie Homo sapiens e della civiltà sumera per mano aliena (gli Annunaki o Nefilim), si basano sulla lettura di traduzioni dei testi sumerici e non degli originali. Le teorie di von Däniken, esposte per la prima volta nel ’69 in Erinnerungen an die Zukunft (Gli extraterrestri torneranno), nel corso di questi decenni non sono mai state comprovate da un qualsivoglia dato scientifico.

Copertina di Non è terrestre di Kolosimo.

Nel nostro paese, sempre tra gli anni ’60 – ’70, furono invece i libri di Peter Kolosimo (Non è terrestre del ’69 e Astronavi sulla preistoria del ’72) a divulgare simili visioni in salsa cosmica presso il grande pubblico. All’onor del vero Kolosimo, il cui vero nome era Pier Domenico Colosimo (1922 – 1984), sembrava apparentemente intenzionato a distinguere tra quelli che riteneva essere dei ricercatori con “idee al limite”, dagli autentici folli. Ad esempio, l’ufologo americano George Adamski venne sonoramente sbeffeggiato nelle pagine di Non è terrestre. Nonostante questo Kolosimo finisce ugualmente per bersi tutto il calice delle pseudo-scienze, anche se decide di scegliere da quale barista farsi servire e quale coktail farsi preparare. Il nostro si sorbisce senza batter giglio tutte le baggianate relative ad astronauti mesoamericani (cfr. nota 06), arrivando a riferire le altrettanto deliranti interpretazioni relative ad alcune statuine giapponesi: «In Giappone la produzione di statuette ebbe inizio nel tardo “periodo Jomon”: si trattò, al principio, di raffigurazioni rozze, elementari, ottenute plasmando la creta; in seguito ebbero occhi, naso, bocca, mani, braccia e gambe ben identificabili. Poi, ad un tratto, comparvero le bizzarre immagini deformate, chiamate dogu, che si suppongono modellate dapprima con la terra, quindi copiate in pietra. […] «Matsumura e Zeissig», scrive Kasanzev, «erano infatti sicuri che il “costume Jomon” rappresentasse fedelmente un tipo di scafandro usato da visitatori provenienti da altri pianeti. I cosmonauti dovevano indossarlo in volo, non sulla Terra, aggiungendo guanti e stivali alla tuta stessa. A conferma di questa loro tesi, i due studiosi ricordano una raffigurazione del dio della saggezza Hitokotonusi, che, secondo un’antica leggenda giapponese, sarebbe sceso sulla Terra per insegnare agli uomini la sapienza e farsi consegnare da loro tutte le armi che possedevano». PETER KOLOSIMO, Non è terrestre, Mondadori, Milano 1991, p. 37. Si tratta di un voluto fraintendimento dell’arte e della cultura di un’antica civiltà, a rendere il tutto più credibile non servono neanche le testimonianze di ingegneri e tecnici. Essi non sanno nulla, non è la loro professione, di archeologia e per forza di cose tenderanno a scorgere nei manufatti ciò a cui sono abituati ad avere a che fare: astronavi, tute spaziali, macchinari d’ogni genere. Il caso di Blumrich, con le sue astronavi di Ezechiele di cui prima si diceva, possiamo considerarlo un esempio da manuale di una simile illusione prospettica.

Charles Fort, foto del 1920.

Le credenze che emergono dallo studio dei divulgatori del paleocontatto, alla fine non sono nient’altro che un miscuglio di ufologia, creazionismo, miti, leggende, folklore e fantascienza alla Charles Fort (1874 – 1932). Quest’ultimo era un soggetto stravagante che sin dagli inizi del Novecento, per la gioia di tutti gli scrittori di sci-fi che in seguito attinsero alle sue opere, tentò di smentire la “scienza ufficiale”. I punti fondamentali della paleoastronautica e delle pseudo-scienze a lei affini sono sostanzialmente questi: 1) prima della storia conosciuta sarebbero esistite delle super-civiltà (identificate con Atlantide o altre terre perdute); 2) manufatti archeologici non correttamente interpretati dagli “archeologi tradizionali”, gli OOPART (Out Of Place ARTifacts, artefatti fuori contesto), attesterebbero la loro esistenza; 3) esseri alieni si sarebbero recati diverse volte sul nostro pianeta, influenzando lo sviluppo culturale dell’Homo sapiens se non addirittura creandolo tramite manipolazione genetica. Quel che è sconcertante, in un simile cumulo di fanta-scemenze, è l’accusa agli scienziati e agli archeologi di essere miopi. Giudicati come degli inetti con una mentalità ristretta, dei poveri cialtroni che non si renderebbero conto delle grandiose scoperte che starebbero sotto il loro naso. La semplice verità è che non c’è nessuno storico, né un archeologo degno di questo nome, nelle schiere di questi eccentrici. Non è nemmeno mai successo che un archeologo non riuscisse a spiegarsi l’esatta natura di un manufatto, dovendo così per forza di cose ricorrere all’aiuto di Däniken e soci per poterlo comprendere.

Quando un accademico, come fece il tedesco Herbert Wilhelmy all’interno del suo La civiltà Maya, si decide ad analizzare le ipotesi cialtrone degli archeologi eterodossi riesce a demolirle con grande facilità. Non si tratta mai di edifici intellettuali dalle solide fondamenta ma bensì fragilissime capanne, prive del benché minimo appoggio e di qualunque consistenza: «Däniken afferma che gli astronauti avrebbero lasciato una quantità di oggetti, poi saliti al rango di ‘reliquie sacre’ presso gli abitanti terrestri. Ma non sono mai stati trovati oggetti di materia spaziale: tutti gli arnesi cultuali recuperati sono fatti di sostanze assolutamente terrestri, argilla, pietra, rame o oro, e riguardo alla loro tecnica di fabbricazione essi sono opera di popoli dell’età preindustriale e non di superuomini del cosmo in grado di costruire navicelle spaziali. […] Non bisognerebbe irritarsi per le accozzaglie archeologiche di Däniken, perché non si convincono i fanatici con la logica. I risultati della ricerca scientifica poggiano sulle deduzioni logiche di numerosi scienziati specialisti avevano idee audaci che in un primo momento son state derise, essi hanno potuto però poi dimostrarne la validità. Däniken non dà una sola prova concreta, scientificamente accettabile e le sue possibilità di poterne fornire una sono nulle… […]”. WILHELMY, La civiltà dei Maya, p. 528.

Le parole di Wilhelmy sono chiare, semplici e lapidarie, tolgono ogni dubbio sulla concreta natura pseudo-scientifica, cioè di sapere fittizio, alla paleoastronautica e a tutti i deliri simili. Qui vorrei sottolineare come i ragionamenti (se così vogliamo chiamarli) di questi investigatori dell’ignoto non siano solo circolari (delle illusioni da sofisti insomma) ma pure infantili. Esistono diverse maniere per poter osservare il mondo che ci circonda, lo sguardo dello pseudo-scienziato è quello di un bambino, di una personalità in formazione che procede per grossolane analogie. Ecco allora che se certi oggetti pre-colombiani d’oro assomigliano superficialmente a dei jet, devono esser per forza dei modellini di aeroplani. Solo gli “archeologi tradizionali”, che ricoprono nello spazio psichico di questi eterni fanciulli il ruolo di adulti barbosi, si rifiutano di riconoscere questa stupefacente verità. In realtà, per poter comprendere le tradizioni iconografiche di un popolo, comprese quelle delle nazioni dell’Europa cristiana medievale, bisogna prima saperle decodificare. Insomma, siamo noi che oggi dobbiamo comprendere le culture del passato, cercando di ricostruire quegli “occhiali mentali” che gli artisti di allora si inforcavano per poter rappresentare la realtà. Si tratta semplicemente di riconoscere che esistono diverse maniere di vedere il mondo e quindi di raffigurarlo artisticamente, senza per forza di cose pensare a qualche forma di intervento alieno. Prima di vedere astronauti alieni nei bassorilievi dei Maya, ad esempio, bisognerebbe conoscere le peculiarità culturali e artistiche di questa civiltà mesoamericana(06). Fare altrimenti sarebbe unicamente una mistificazione, limitarsi a scorrere qualche fotografia, trovando magari dei punti in comune con un filmato della NASA, non è una metodologia di lavoro accettabile(07).

Solo una ferrea volontà di ignorare i fatti, unita a una grossolana ignoranza riguardo alle civiltà sulle quali si vuole sproloquiare, può consentire il parto delle fantasiose ipotesi alla Däniken. Certo è vero che Lovecraft, Kubrick, Clarke e Miyazaki ci hanno regalato dei capolavori, nessuno di loro però, nemmeno per un istante, ha mai proposto di riscrivere la storia del nostro pianeta. Invece il povero Scott, seguendo in maniera didascalica tutti i deliri della paleoastronautica, ha realizzato senza saperlo una specie di versione per il grande schermo di Voyager: quindi un risibile pastrocchio sconclusionato che non ha riscosso grandi consensi. Molto meglio a questo punto la fanta-pellicola fracassona Stargate (Roland Emmerich, 1994), da cui sono state tratte diverse serie televisive, oppure le avventure dell’archeologo Indiana Jones, il quale però si è preso pure lui una sonora batosta quando ha abbandonato la ricerca degli oggetti leggendari della tradizione giudaico – cristiana (l’Arca dell’Alleanza, il Graal) per i teschi di cristallo degli ufologi (Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, 2008).

Intendiamoci, qui nessuno sta proponendo messe al bando o censure. Guardate pure Voyager, Enigmi alieni e simili ma tenete ben a mente due cose: 1) non si tratta di autentica divulgazione scientifica, nulla ci autorizza a definirla tale, si tratta nel migliore dei casi di “archeologia dei sogni”; 2) cercate sempre di scoprire il trucco, prendete spunto dai Brown e dai Däniken come stimolo per poter conoscere il nostro vero passato, non quello fabbricato sul nulla da qualche sognatore. Imparate a smontare i loro ragionamenti e a scoprire dove c’è l’inganno, fate come chi va a uno spettacolo di magia convinto che si tratti di un abile spettacolo di prestidigitazione anche se il mago, furbescamente, tenta di presentarsi come un individuo paranormale. Sviluppate uno sguardo critico. Vedrete, vi divertirete di più e potrete farvi una sonora risata alle spalle dei paleoastronauti e degli atlantidei!

Teschio di cristallo conservato nel British Museum.

Note

(01) «Involontariamente cercò di tapparsi le orecchie con le mani chiuse nella tuta spaziale; poi si riscosse e brancolò freneticamente in cerca del comando di volume del ricevitore. Mentre stava ancora annaspando, quattro altri stridi proruppero dall’etere; seguì poi un misericordioso silenzio. Tutto attorno al cratere, sagome rimanevano immobili in atteggiamento di paralizzato stupore. Allora non si tratta di un guasto al mio apparecchio, si disse Floyd; hanno udito tutti questi penetranti gridi elettronici. Dopo tre milioni d’anni di tenebre, il TMA-1 aveva salutato l’alba lunare». ARTHUR C. CLARKE, 2001 A Space Odyssey, 1987; tr. it. 2001: Odissea nello spazio, TEA, Milano 1987, p. 49. Il rumore che sentono gli astronauti non è nient’altro che un segnale, inviato in direzione di Giove, laddove si trova un terzo monolito in attesa.

(02) Ashpole demolisce con grande facilità la teoria dei paleo-contatti tipica della fanta-archeologia mentre al contrario ritiene che sia sensato ipotizzare che degli extraterrestri, allo scopo di lasciare un segno del loro passaggio, possano lasciare dei manufatti sulla Luna. Nel nostro satellite, totalmente privo di atmosfera, si conserverebbero per milioni di anni, in 2001: Odissea nello spazio viene presa in considerazione proprio quest’ultima ipotesi. «Negli ultimi anni c’è stata una vasta diffusione dei racconti sugli extraterrestri. Gli autori di fantascienza si prendono sul serio, credono in quello che scrivono. Ma a mio avviso sembrano ignorare un particolare che ridurrebbe drasticamente la probabilità che esistano esseri extraterrestri: l’età della nostra Galassia. Alla luce di ciò, per risalire a eventuali visite aliene attraverso la storia, bisognerebbe tener conto del tempo in termini di miliardi e non di migliaia di anni. È proprio l’elemento tempo che rende probabile l’esistenza di intelligenze extraterrestri tecnologicamente avanzate». EDWARD ASHPOLE, The Search for Extraterrestrial Intelligence, 1989; tr. it. SETI. La ricerca di vita intelligente nell’universo, Edizione CDE, Milano 1990, p. 109.

(03) Il creazionismo rifiuta in toto la teoria darwiniana ed è ritenuto essere una scienza solo dai fondamentalisti protestanti. In alcuni stati della Bible belt degli Stati Uniti viene persino insegnato nelle scuole. Ogni passo della Bibbia, compresa la Genesi, viene interpretata in maniera letterale. A volte, data la loro comune volontà di scardinare i paradigmi della “scienza ufficiale”, i creazionisti sostengono tesi assai simili a quelle degli archeologi eterodossi e viceversa. Del resto alcuni teorici del paleocontatto ritengono che l’umanità sia stata creata da alieni, giungendo così a negare anch’essi darwinismo. Invece anche i creazionisti credono nell’esistenza di manufatti inspiegabili e vorrebbero disseppellire tracce archeologiche dei loro miti biblici preferiti (l’Arca di Noè che attesterebbe il Diluvio, ad esempio).

(04) Bart D. Ehrman, studioso del Nuovo Testamento e dell’origine del cristianesimo, individua almeno dieci errori sostanziali nel Codice Da Vinci di Brown: «1. La vita di Gesù certamente non è stata «scritta da migliaia di suoi seguaci in tutte le terre». Gesù non aveva migliaia di seguaci e men che meno alfabetizzati. 2. Non è vero, ed è improprio, dire che «più di ottanta vangeli sono stati presi in considerazione per il Nuovo Testamento». 3. Non è assolutamente vero che prima del concilio di Nicea Gesù non era considerato divino bensì un «profeta mortale». La maggioranza dei cristiani, fin dall’inizio del IV secolo, ne riconosceva la divinità. (Alcuni pensavano che fosse divino al punto da non essere affatto umano!) 4. Costantino non commissionò una «nuova Bibbia» che omettesse i riferimenti ai tratti umani di Gesù. Anzitutto non ne commissionò affatto una nuova, e inoltre, i libri che vi furono inclusi sono fitti di riferimenti ai tratti umani di Cristo (è affamato, stanco, si arrabbia; è turbato; sanguina, muore.. .)., 5. I Rotoli del Mar Morto non furono «trovati negli anni Cinquanta». Era il 1947. E i documenti di Nag Hammadi non raccontano per nulla la storia del Graal, né sottolineano l’umanità di Gesù. Semmai il contrario. 6. Il «costume dell’epoca» non imponeva «a un ebreo di essere sposato». Infatti i membri della comunità dei Rotoli del Mar Morto erano in gran parte maschi celibi. 7.1 Rotoli del Mar Morto non sono tra «i più antichi documenti cristiani». Sono ebraici e di cristiano non hanno nulla. 8. Non sappiamo niente della discendenza di Maria Maddalena e niente la collega alla «Casa di Beniamino». Se anche ne avesse fatto parte, ciò non farebbe di lei una discendente di Davide. 9. Non c’è nessun dato a confermare che Maria Maddalena era incinta all’epoca della crocifissione. 10. Il documento Q non è una fonte pervenuta fino a noi e nascosta dal Vaticano, né un libro forse scritto dallo stesso Gesù. È un ipotetico documento che per gli studiosi potrebbe essere stato a disposizione di Matteo e di Luca: sarebbe sostanzialmente una raccolta dei detti di Gesù. Gli studiosi cattolici ne hanno la stessa opinione dei non cattolici; non esistono segreti in merito». BART D. EHRMAN,Truth and Fiction in The Da Vinci Code: A Historian Reveals What We Really Know about Jesus, Mary Magdalene, and Costantine, 2004; tr. it. La verità sul Codice da Vinci. Un grande storico svela tutti i segreti del libro che ha affascinato il mondo, Mondadori, Milano 2005, pp. 3-4. Ehrman comunque dichiara di essere un fan del best-sellers di Brown, di cui sottolinea la scorrevolezza, e molto onestamente nella sua analisi storica non esita a sottolineare i passaggi in cui il romanziere non sembra aver ecceduto in interpretazioni fantasiose.

(05) Così lo pseudoscienziato Charles Berlitz sintetizza la questione relativa ad Atlantide, un mito che egli vorrebbe storicizzare: «Negli ultimi duemilacinquecento anni parecchie persone hanno ritenuto che un tempo, nel mezzo dell’Atlantico, approssimativamente tra la Spagna, l’Africa e le Americhe, sia esistito un continente insulare poi sprofondato nel mare. E su questa grande isola visse un popolo civilizzato e ambizioso; c’erano grandi città, palazzi fastosi, templi dai tetti d’oro, e un complicato sistema di canali provvedeva all’irrigazione dei campi ubertosi. Una flotta poderosa, un esercito agguerrito, diffusero i commerci ed il dominio di Atlantide sia presso le isole disseminate nell’oceano che nelle coste dell’Europa, dell’America, del Bacino del Mediterraneo e oltre. Allorché questa civiltà raggiunse il suo apogeo, crollò bruscamente, travolta da maremoti, terremoti e da tremende eruzioni vulcaniche. Scomparve letteralmente dalla Storia, sopravvivendo soltanto nei racconti e nelle leggende tramandate per generazioni dai discendenti di coloro che scampano all’immane disastro. Il nome di quest’Impero insulare era Atlantide». CHARLES BERLITZ, Atlantis. The Eight Continent, 1984; Atlantide. L’Ottavo Continente, Edizioni Mediterranee, Milano 1987, p. 28.

 (06) Wilhelmy, nello smontare le ipotesi raffazzonate di Däniken, affronta uno dei cavalli da battaglia dei paleoastronauti, il cosiddetto “astronauta di Palenque”, un bassorilievo su di una lastra sepolcrale maya che rappresenterebbe un pilota spaziale dentro al suo razzo. In realtà, si tratta un illusione nata dalla volontà di mistificare e dalla più completa ignoranza della cultura dei Maya. La lastra in questione è stata datata al VII secolo dopo Cristo, essa è stata posata sul sarcofago di Pacal, signore della città di Palenque dal 603 al 683: «Ma il ritratto sulla lapide non è quello del principe Pacal e neanche quello di un astronauta, bensì il ritratto del dio del mais, Yum Kax. La posizione ‘da astronauta’ della divinità si ottiene solo se si osserva, come ha fatto Däniken, la lapide dal verso sbagliato, cioè per il largo. La posizione della lastra nella stretta cella sepolcrale e l’insieme del rilievo non lasciano dubbi sul fatto che va osservata per il lungo. Solo da questa angolazione il rilievo ha un senso: un giovane siede inclinato all’indietro sulla maschera del demone delle tenebre e tra le fauci della morte. I monili sulle braccia, le gambe ed il busto, coprono il suo corpo nudo. Si diparte da lui, a forma di croce, l’albero degli Inferi, sulla cui cima si trova un uccello benevolo. Il giovane e l’albero che lo sovrastano simboleggiano insieme l’idea della eterna e indistruttibile forza vitale e del continuo rinnovamento». WILHELMY, La civiltà dei Maya, pp. 526 – 527.

(07) Se in futuro tutti gli archeologi dovessero diventare come Däniken allora sarebbe lecito aspettarsi che qualche ricercatore, basandosi sui comics americani e sui manga giapponesi, giungesse alla conclusione che in Nord-America sin dal ventesimo secolo avessero fatto la loro comparsa dei superuomini dagli incredibili poteri; divisi in opposte fazioni e in perenne lotta tra loro. Qualcuno potrebbe pure mettersi alla ricerca dei siti in cui sorsero Gotham City e Metropolis. Altri potrebbero sostenere che Tokyo venne distrutta diverse volte da schiere di giganti robotici, oppure autorizzarsi a ipotizzare che la popolazione giapponese dell’epoca fosse caratterizzata da enormi occhi iridescenti e da capelli multicolori.



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