Ricreare il passato, immaginare il futuro – Prima parte: Olaf Stapledon


a cura di Claudio Cordella

Spesso e volentieri la sci-fi, nei romanzi e a volte anche nei fumetti, strizza l’occhio alle scienze storiche arrivando persino a elaborare complesse cronologie dei secoli a di là da venire. Tralasciando l’ucronia, cioè la storia alternativa, la quale prende in esame fatti realmente accaduti per poi imbastire degli universi ipotetici alternativi al nostro, le conoscenze relative al nostro passato vengono in genere impiegate per gettare un ponte verso il nostro domani. L’inglese Olaf Stapledon (1886 –1950), pubblicò nel 1930 il suo formidabile Last and First Men (Infinito); un’indimenticabile “storia del futuro” capace di abbracciare i milioni di anni relativi alla possibile evoluzione futura della nostra specie.

Olaf Stapledon.

Quel che è interessante in Stapledon non è solo il suo rappresentate dei timori della sua generazione, segnata dagli orrori della Prima guerra mondiale e prossima a sperimentare l’abominio della barbarie nazifascista, quanto piuttosto il suo essere un severo critico della civiltà industriale. Gli esseri umani infatti riescono a dar vita a un mondo unificato e “americanizzato” solo per dilapidare in maniera insensata le risorse del nostro pianeta. Se lo Stato mondiale che si viene a creare all’inizio punta sul risparmio energetico e su quelle che noi oggi chiamiamo energie rinnovabile (vento, forze delle maree, geotermica), in seguito la sua politica cambia, corrotta da una malsana idea di progresso legata a doppio filo con un culto religioso del movimento: “Per ogni individuo l’obbiettivo imposto dall’insegnamento religioso che riceveva era il continuo avanzamento delle prodezze aeronautiche, la libertà sessuale legalizzata e la grande ricchezza. L’ideale della razza era il progresso, ma un progresso di tipo non intelligente […] Questo accadeva perché l’idea diffusa dappertutto e che tiranneggiava la razza era sempre l’adorazione fanatica del moviment0. Gordeplus, il primo motore, pretendeva dalle sue incarnazioni umane un’attività frenetica e agile e la prospettiva individuale di vita eterna dipendeva dall’adempimento di quell’obbligo”. OLAF STAPLEDON,  Last and First Men, 1930; tr. it. Infinito, ed. Mondadori, Milano 1990, pp. 105 – 106.

Dopo secoli di sfruttamento intensivo anche le risorse dell’Antartide vengono a mancare; la specie umana, narcotizzata dal consumismo e dalla religione, è composta da individui in cui il pensiero creativo, la curiosità e l’immaginazione vengono spenti sin dalla nascita. Tali individui non sono in grado di elaborare una risposta soddisfacente alla crisi che gli si para davanti; persone simili, pur se rose nel loro intimo dal dubbio che gli porta a guardare con sospetto alla vita menzognera che hanno condotto sino a quel momento, preferiscono di gran lunga continuare la loro folle vita ritualistica come se nulla fosse. Quando diviene chiaro a tutti che non esiste alcuna fonte miracolosa di energia tenuta nascosta dagli scienziati, il mondo intero cade in preda dell’anarchia e del caos. L’Homo sapiens, vuole dirci Stapledon, a differenza dell’alta considerazione che ha di sé stesso è ben poca cosa rispetto alle forze del cosmo e la sua stessa intelligenza non è poi così penetrante come ama credere. Dopo la catastrofe un’effimera civiltà sorta nel continente Sudamericano, in Patagonia, costituita da umani senescenti dalla vita breve non ottiene in definitiva nessun altro risultato che scatenare, pur se involontariamente, l’apocalisse nucleare sulla Terra. Da un simile disastro l’Homo sapiens non sarà più in grado di risollevarsi.

Dopo la scomparsa  della nostra specie però i nostri eredi, i Secondi Uomini, riusciranno tra mille fatiche a edificare una civiltà planetaria realmente degna di questo nome, un’autentica utopia che però viene spazzata via da un’invasione aliena. La tecnica narrativa impiegata da Stapledon è assai singolare; qui non abbiamo né uno o più personaggi longevi che assistono all’evolversi degli eventi lungo un arco di tempo di milioni di anni, né un romanzo che segue le vicende di più generazioni. No, Stapledon imita lo stile del più severo libro di storia imbastendo una cronistoria che segue l’ascesa e la caduta di più civiltà e di diverse creature senzienti. Si consideri poi di come nel suo complesso Infinito presenti una sorta di schema ciclico: o le specie umanoidi di cui Stapledon si occupa, 18 in tutto dalla nostra era alla morte del Sistema Solare, non riescono a dar vita a una società giusta e si auto-distruggono, oppure nel caso in cui abbiano successo una qualche forza cosmica ci si mette sempre di mezzo a sbarrar loro il cammino.

Il che però non significa che quest’autore si abbandoni al pessimismo; l’ultima specie umana, rappresentata dai Diciottesimi Uomini, deve affrontare l’esplosione del Sole a causa di una malattia stellare. Da tempo l’umanità si è trasferita sul pianeta Nettuno, descritto dal nostro come una sorta di Terra gigante, dove ha saputo creare un’avanzatissima civiltà che però l’imminente catastrofe cancellerà per sempre. Gli Ultimi Uomini però non si perdono d’animo; ad esempio essi tentano di mettersi in contatto con la gente del passato, infatti Infinito viene presentato al lettore come una lunga cronistoria che viene raccontata da un rappresentate di questo popolo futuro a un contemporaneo di Stapledon. Lo scopo di simili viaggi viene compiuto come genuino atto d’amore per le generazioni del passato ed eventualmente, tramite i consigli provenienti dal futuro, anche per cercare di influenzarle in qualche maniera. Ma costoro non si limitano a questo, delle “spore d’Uomo” vengono lanciate nello spazio profondo in direzione della lontana galassia d’Andromeda. Questo romanziere, un professore di filosofia di Oxford che si dedicò alla letteratura solo nella sua maturità, paragona più e più volte lo svolgersi della storia umana a un tema musicale, in particolare nella conclusione di Infinito: “Ma una cosa è certa: l’uomo, se non altro, è musica egli stesso. Un tema coraggioso, che rende musicale anche il suo vasto accompagnamento, la sua matrice di uragani e di stelle”. STAPLEDON, Infinito, p. 406. Intanto negli anni ’30 – 40, prima sulle pagine dei pulp magazine dalle sgargianti copertine, sia Robert A. Heinlein che Isaac Asimov, due icone della fantascienza made in USA, iniziano la loro opera di “storiografi del futuro”.

 Last and First Men (Infinito), copertina.


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