Stephen King – Danse macabre – Parte seconda.


di Fabrizio Valenza.

Come dice la quarta di copertina, Danse macabre è un’opera “che è diventata un piccolo classico, un cult, nella quale un autore a sua volta di culto celebra l’horror definendone gli archetipi in una ridda in cui danzano, tenendosi per mano, letteratura e z-movies, leggende metropolitane e cinema d’autore, serie Tv, fumetti e perfino le figurine“.

Leggi la prima parte dell’articolo.

Il terzo capitolo. Nel terzo capitolo Stephen King affronta tre capisaldi del genere horror, così come degli archetipi che lo caratterizzano: Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde, Dracula e Frankenstein, tre libri che vivono al di fuori della cerchia di ciò che è considerato “classico” della letteratura inglese. Gli archetipi corrispettivi di cui trattano sono: il Licantropo, il Vampiro e la Cosa senza nome.

Iniziamo da Frankenstein. La storia della Shelley è stata trasformata innumerevoli volte nelle varie versioni cinematografiche, e il libro è molto più lento e verboso di quanto lo siano i film. Inoltre, si tratta di un romanzo molto breve. Cento pagine in tutto, che grazie al cinema ha ricevuto una eco pressoché infinita. Attraverso le emozioni viscerali che propone, il grande schermo è stato in grado di dare al romanzo della Shelley ciò che la sua autrice non aveva inserito, ovvero la violenza.

Così quando ci si chiede chi o che cosa ha trasformato il mostro di Mary Shelley, forbito nel parlare e formatosi sulle pagine di I dolori del giovane Werther e di Paradiso perduto, in un archetipo popolare, il cinema è la risposta assolutamente esatta (pag. 68).

Motivo di questo enorme successo cinematografico sta soprattutto nella eterna dicotomia messa in campo dalla storia della Shelley: da un lato non si può che provar ribrezzo per una creatura siffatta, e vorremmo la sua eliminazione. Dall’altra, la creatura della Shelley è vittima essa stessa di ciò che è e dell’invenzione di Frankenstein.

Benché […] il mostro sia orribile a guardarsi, c’è anche un qualcosa di così triste, di così derelitto in lui, che in realtà abbiamo compassione per la creatura pur ritraendocene con terrore e disgusto (pag. 71).

Il concetto è utilizzato anche in forme diverse. Con l’Incredibile Hulk si unisce il Licantropo alla Cosa senza nome. Con King Kong, poi,

quando lo scimmione a cavalcioni dell’Empire State Building cerca di combattere contro gli aerei, che gli sparano con le mitragliatrici, come se fossero gli uccelli preistorici della sua isola nativa (ibid.)

si ottiene uno dei più grandi tentativi di fusione di amore e orrore, innocenza e terrore.

Il vampiro.

Era il giugno del 1816, e la compagnia di viaggiatori – Percy e Mary Shelley, Lord Byron e il dottor Polidori – da due settimane era costretta a restare in casa per via delle piogge torrenziali. Fu così che i quattro amici cominciarono una lettura collettiva di storie tedesche di fantasmi raccolte in un libro intitolato Fantasmagoriana. […] Si decise di comune accordo che ogni membro della compagnia si sarebbe cimentato nella composizione di un nuovo racconto di fantasmi. […] È John Polidori, il generoso dottore, che talvolta viene ricordato come possibile collegamento con Bram Stoker e Dracula. Più tardi il suo racconto fu ampliato fino a diventare un romanzo, e riscosse un grande successo. Si chiamava Il vampiro (pagg. 72-73).

L’influenza del breve racconto di Polidori fu enorme, perché diede le linee generali della figura romantica del vampiro, sebbene Bram Stoker lo avesse semplicemente in mente. Il suo vampiro è molto diverso da quello delineato dal suo antecedente.

Il lavoro di Stoker sul vampiro fu quello di renderlo protagonista di una storia d’avventura in cui il mostro è presente per la minima parte del romanzo. Il male che viene dall’esterno, che non è una proiezione dell’orrore interiore, riceve con Stoker una carne tanto solida da diventare una figura quasi reale. Un effetto che ottiene mantenendo il mistero sul vampiro ai massimi livelli, e avvicinandovisi tramite le lettere e i rapporti di coloro che ne vanno alla ricerca. Il modo migliore per suscitare l’orrore è quello di farlo immaginare senza descriverlo. Il miglior modo per parlare di un mostro è lasciare con abilità che sia il lettore a immaginarselo.

Stoker crea il suo mostro spaventoso e immortale allo stesso modo in cui un bambino riesce a creare l’ombra di un coniglio gigantesco sul muro muovendo semplicemente le dita davanti alla luce (pag. 76).

Caratteristica peculiare del vampiro ottocentesco è la componente sessuale fortemente deviata. La società vittoriana che controllava e parzialmente impediva l’esplicita parola sessuale, porta Bram Stoker a riversare tutta la deviazione sessuale verso la bocca. Questo è un aspetto che si è perso nel corso del Novecento, più interessato a sottolineare l’aspetto sociale del vampiro e del suo inserimento in seno al consorzio umano.

Il vero Licantropo.

La struttura del libro (molto breve) è quella di una serie di testimonianze di coloro che furono coinvolti nello strano caso. Il punto di forza della narrazione di Stevenson sta nel fatto che tutti, come dice King, riconosciamo il mutante quando lo incontriamo o ne sentiamo parlare. Si tratta del Marchio della Bestia, che caratterizza il Licantropo, colui che si trasforma mostrando la sua natura più nascosta e orribile, quella inumana.

Il dottor Jekyll e mister Hyde è un capolavoro di concisione […]. La tredicesima regola del buon scrivere recita semplicemente: “Ometti le parole superflue”. […] La nuda ed essenziale storia dell’orrore di Stevenson può servire da libro di testo esemplare, per gli scrittori alle prime armi (pag. 95).

La struttura del romanzo funziona come un motore, ciò che la maggior parte degli scrittori di narrativa “seria” sembrano dimenticare.

Se guardiamo alla storia di Jekyll e Hyde come a un conflitto pagano tra il potenziale apollineo dell’uomo e i suoi impulsi dionisiaci, ci accorgiamo che il mito del Licantropo, variamente etichettato, attraversa gran parte dei romanzi e dei film dell’orrore moderni (pag. 90).

Dopo la prima scena descritta da Enfield, in cui un uomo investe una bambina e le cammina sopra ignorando le sue urla di dolore, il romanzo si sviluppa con precisione e con un gioco perfetto di alternanza tra le due facce della mente umana: quella evidente a tutti, apollinea, che vuole e può perché vuole, e quella dionisiaca, liberata dai lacci della morale, e che sarebbe nascosta a tutti non fosse per la pozione che viene utilizzata per sganciarla dal controllo.

Ciò di cui stiamo parlando essenzialmente è il vecchio conflitto tra Es e Super Io, tra la libera scelta di fare il male e di rigettarlo… o, secondo lo stesso Stevenson, del conflitto tra mortificazione e appagamento (pagg. 89-90).

(continua…)


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