COME USARE LA STORIA


di Claudio Cordella

«Gli storici e i filosofi vissuti nel XIX secolo inclinavano a pensare che la storia avanzasse sulla spinta dei grandi mutamenti spirituali e intellettuali. Credevano che Dio, o lo Spirito della Ragione o la Passione per la Libertà facessero procedere il mondo. Alcuni di loro credevano in una “missione civilizzatrice” europea e cristiana. Altri pensavano che le razze e le civiltà avessero alti e bassi, secondo le leggi naturali della competizione, della sopravvivenza e del declino. Nel XX secolo, vennero alla ribalta spiegazioni materialistiche del mutamento». CHRISTOPHER A. BAYLY, The Birth of the Modern World, 2004; tr. it. La nascita del mondo moderno 1790 – 1914, Einaudi, Torino 2009, p. 11.

Volendo potremmo dire che le idee sulla vera natura dei processi storici siano anch’esse, come qualsiasi altra cosa, sottoposte al giudizio del tempo. Il suo fluire cancella metodologie di lavoro, modi di vedere e di interpretare il passato che vengono relegati in soffitta e dismessi come gli abiti di lana all’inizio della bella stagione. Eppure, indipendente da quali siano le chiavi di lettura in auge presso gli storici, scrittori, fumettisti e registi sono sempre andati volentieri ad abbeverarsi alla fonte della storia. È notorio come il filologo medievista J. R. R. Tolkien si sia ispirato alle mitologie e ai linguaggi del medioevo nord-europeo per plasmare le storie della sua Middle Earth (Terra di Mezzo), traendovi quella linfa vitale confluita in capolavori come The Hobbit (Lo Hobbit) e The Lord of the Rings (Il Signore degli Anelli). Analogamente Frank Herbert nel suo Dune, monumentale romanzo spesso considerato dai critici come uno strano impasto di fantasy e science – fiction, ha letteralmente saccheggiato la civiltà islamica. In tal modo, Herbert è riuscito a rendere in maniera vivissima un ambiente desertico di fantasia, una struttura narrativa all’interno della quale emerge alla perfezione la complessità del rapporto uomo – ambiente e l’influenza che la presenza di risorse disponibili hanno sull’economia. Religione e misticismo non sono dimenticati, infatti viene studiato l’impatto che possono avere delle credenze messianiche sulle popolazioni e sulle loro vite, interrogandosi sui mutamenti di cui possono essere responsabili gli individui dotati di un potere carismatico. Sia Il Signore degli Anelli che Dune sono strutture narrative metaforiche, esse partono da alcuni dati oggettivi, linguistici, mitologici, economici o legati al vissuto quotidiano, per poter intessere il loro arazzo fantastico. George R. R. Martin, assunto al rango di celebrità incontrastata del fantasy mondiale con la sua monumentale saga A Song of Ice and Fire (Le Cronache del ghiaccio e del fuoco), diventata anche una serie televisiva di grande successo, per le traversie politico-militari dei Sette Regni di Westeros (Occidente) si è liberamente ispirato alla Guerra dei cent’anni (1337 – 1453) che si combatté nell’Europa tardo-medievale tra Inghilterra e Francia, nonché alla successiva Guerra delle due rose (1455-1485). Quest’ultimo fu un conflitto fratricida, direttamente collegato con il massacro anglo-francese durato un secolo, scoppiato tra due rami della dinastia regnante dei Plantageneti, i Lancaster e gli York, i cui stemmi erano costituiti rispettivamente da una rosa di colore rosso e da una bianca. Un’estenuante lotta per il potere tra diverse fazioni che ci richiama alla mente gli sanguinosi scontri tra i vari casati degli Stark, dei Lannister, dei Targaryen e via dicendo, scaturiti dalla fertile fantasia di Martin.

Empress, da The Five Star Stories, particolare della testa. Copyright degli aventi diritto.

A guardar bene non si può creare nulla dal nulla e anche il più fantasioso degli scrittori, nel momento in cui decide di presentare ai propri lettori una società che non si è mai vista prima, non può che ispirarsi a quello che ha veramente fatto la sua comparsa sulla faccia della Terra. Prima si è detto dell’influsso del mondo islamico in Dune, in realtà nell’imponente opera di Herbert, inserita all’interno di una esalogia altrettanto colossale, avremmo dovuto parlare anche dello Zen, delle scuole filosofiche d’età ellenistica e delle famiglie aristocratiche europee dell’ancien régime. Si tratta di una civiltà unica, nata dall’impasto di più elementi provenienti dalle più disparate esperienze storiche umane, pur facendo l’elemento islamico la parte del leone. Persino il giapponese Mamoru Nagano, autore dei volumi di The Five Star Stories (editi nel nostro paese dalla Flashbook), assimilabile per molti versi a Dune, tesse un mirabile arazzo ugualmente a cavallo tra fantasy e fantascienza, tra il racconto mitologico e le iperboli tecnologiche. Purtroppo ingarbugliato da complessità cervellotiche e da barocchismi narrativi fini a sé stessi.

Quel che qui ci preme sottolineare qui è come Nagano, sia dal punto di visto storiografico quanto iconografico, attinga dalle più disparate esperienze di civiltà, ammettendolo senza problemi. In buona sostanza i mondi dell‘Ammasso Stellare del Joker di The Five Star Stories sono dei mosaici geopolitici di inaudita complessità, divisi tra nazioni maggiori e minori, ispirate a entità politiche ben note agli studiosi di storia. Ecco allora che l’Impero di Fillmore, paese leader del pianeta di Kallamity, ha una lunga tradizione alle spalle, paragonata esplicitamente da Nagano alla sua patria, mentre il suo sovrano veste abiti che ricordano quelli del sultano della Sublime Porta (l’Impero Ottomano).

Il capo indiscusso dell’Amaterasu Kingdom Demesnes (A.K.D.), Amaterasu Dis Grand Gris Eihtath IV del mondo di Delta Belun, è un albino androgino la cui figura richiama la dea Amaterasu, la divinità fondatrice dello stato giapponese. L’ordine cavalleresco posto a difesa di questo imperatore-dio però non ricorda tanto i samurai quanto piuttosto i Templari del medioevo. Nedoll Nein è stata un tempo l’Imperatrice dell’Ammasso Stellare di Phallus Dei Kanaan, ovverosia la nona monarca del Superimpero a regnare su tutti i mondi del Joker. Costei, nota come Imperatrice di Fiamma, dopo essersi diretta verso gli Astri Vaganti di Stantt, con una grande armata al suo seguito, ha fatto perdere le proprie tracce per ben tremila anni. Riappare nei pressi del pianeta Kallamity solo nell’Anno Domini 8383 (The Five Star Stories, vol. VIII), intervenendo in maniera repentina e radicale nella storia delle popolazioni umane. Le quali dal canto loro non se la passano certo bene. L’unità un tempo garantita dal Superimpero è ormai uno sbiadito ricordo, un’età dell’oro ricoperta da un alone mitico, sostituita da una realtà brutale fatta di guerre, sopraffazioni e atroci ingiustizie. Nagano, pigiando l’acceleratore sia sul pedale del tecno-mitologico che dell’estetica arcaizzante, nel raccontarci del ritorno di Nedoll ricorre in modo massiccio all’ausilio della lingua latina, non solo nel titolo di questo capitolo, The Return of the Fire Witch – Ignis Astri Imperatricis Coccinae reditus Antiquorum temporum rogus, L’imperatrice di Fiamma, ma persino nei dialoghi ivi presenti. Le motivazioni di questa scelta risiedono molto probabilità nella volontà dell’autore di evocare l’Impero romano d’Occidente e la sua caduta, del resto la maggior parte dei percorsi narrativi di The Five Star Stories negli anni successivi alla disgregazione del Superimpero l’Ammasso sprofonda in un progressivo declino. Cambia persino il sistema di datazione che passa dall’Anno Domini (A. D.), che non viene più usato dopo il 9000 per il computo del tempo, al Calendario Stellare il cui inizio è alfiere di una triste età di ristagno, disgregazione e di un rinnovato feudalesimo. Insomma, una versione hi-tech dell’alto medievo e dei triti luoghi comuni con cui di solito viene caratterizzato.

The Five Star Stories, Empress, figura intera. Copyright degli aventi diritto.

All’interno di un simile scenario Astrum, la chilometrica nave madre dell’Imperatrice di Fiamma (Ignis Astri Imperatrix), fa la sua improvvisa comparsa al di sopra della città-stato di Spatula di Kalamity. I seguaci di Nedoll non solo dimostrano ben presto di possedere una tecnologia superiore, di inaudita potenza per la civiltà decadente del Joker, ma anche di avere a una spiccata predilezione per la lingua di Virgilio. Per la precisione, tale idioma finisce per essere direttamente collegato con il Superimpero e con la sua eredità. Ned Swans, il Cavaliere (Headdliner, Chevalier) protagonista, afferma di esser rimasto ibernato per la bellezza di duemila anni e che il suo titolo è quello di Flammae Imperatricis Eques, Cavaliere dell’Imperatrice di Fiamma. Quest’ultimo, assieme alla sua antica sovrana, presentatisi dinnanzi a lui sotto una falsa identità, combatterà sino allo stremo contro il dittatore fascista Yoh Tayin, il quale non a caso porta il titolo di führer. Il despota, alleatosi per l’occasione con un tiranno deposto apparentemente in cerca di vendetta, l’imperatore Die Katze, è diventato un pericolo per tutte le libere genti dell’Ammasso.

Il culmine di questo cocktail lo si ha forse nel momento in cui i Machine messiah, le armi robotiche antropomorfe dei guerrieri al seguito dell’Imperatrice di Fiamma, si scagliano contro l’imponente Flotta di Katze. Mentre le astronavi che vi fanno parte vengono facilmente fatte a pezzi, i Cavalieri a bordo di questi robot continuano a discorrere e a sentenziare in latino. Alla fine dell’intrica vicenda, che si conclude con la devastazione di Spatula e con la sconfitta di Die Katze (in realtà una mummia manovrata dai suoi cortigiani), l’imperatrice continua a rivolgersi ai suoi fedeli in latino. A un navigatore, che vuole sapere quale rotta impostare dopo aver compiuto la loro missione, l’augusta risponde «Ad Deltam Belunem…», latinizzando il nome del pianeta in Delta Belune. Proprio come poco prima aveva fatto per l’Ammasso stellare del Joker, ribattezzato per l’occasione Jokeris Stellarum Cumulo. Solo quando si rivolge a Swans, Nedoll Nein non impiega più quella che teoricamente dovrebbe essere una lingua morta. L’Imperatrice di Fiamma viene citata anche nel successivo episodio The Dance of the Puppets – Principium Pupae, Le marionette degli imperatori, in cui appare un Mortar headd, un essere robotico sviluppato a partire dai Machine messiah del Superimpero, che risponde al nome di Empress, o di Imperatrix Flamae, che si richiama sia nell’appellativo quanto nelle fattezze femminee, corona regale compresa, a quest’antica sovrana. Una trovata, iconografica e linguistica, di sicuro impatto con quel suo inusitato accostamento di alta tecnologia e arcaismi, così tipico dell’arte fumettistica di Nagano. Un simile gioco intellettuale, come si può ben intuire, può essere portato avanti pressoché all’infinito, con innumerevoli scambi, sovrapposizioni e intrecci. Naturalmente per poterlo fare bisogna sapere quale sia stata la storia giapponese, che cosa fossero gli ordini cavallereschi europei, l’importanza di un impero multi-culturale come quello Ottomano e via discorrendo. Insomma, chi voglia cucinare impiegando gli ingredienti della storia, deve prima conoscere la natura di quest’ultimi per poterli impiegare saggiamente.

Tra l’altro, non dimentichiamoci di come abbia avuto un notevole successo, attirando l’attenzione anche degli studiosi di professione, la cosiddetta storia alternativa (ucronia); la quale parte proprio da fatti storici noti per poi percorrere la strada del “se fosse”. Un magistrale esempio di questo sottogenere letterario, scritto con finezza e maestria, ci viene offerto da Philip K. Dick con il suo stupendo The Man in the High Castel (La svastica sul sole): descrizione di un mondo da incubo nel quale il nazismo ha trionfato. Tra gli italiani ha saputo distinguersi Valerio Evangelisti, assai accurato nelle sue ricostruzioni storiche. Ad esempio, il character più celebre da lui creato, lo spietato inquisitore Nicholas Emerych, non è altro che una convincente versione letteraria di un personaggio realmente esistito nel Trecento. Gli universi del “se fosse”, in cui Napoleone o Adolf Hitler vincono tutte le loro battaglie, oppure nei quali l’Impero romano sopravvive alle “invasioni barbariche”, necessitano ancor di più degli “universi minestrone” precedentemente esposti, di un minuzioso lavoro di documentazione per risultare verosimili. Se tutto questo vale per chi abbia scelto di seguire una narrazione di tipo fantastico, il quale può trarre ispirazione a suo piacimento da una o più civiltà, ancor più rigoroso dev’essere chi desideri ambientare una vicenda nel corso di un passato più o meno noto. Il rischio del ridicolo è sempre in agguato, nemmeno gli esperti non sono immuni da critiche se finiscono con il farsi prendere la mano.

Giovanna d’Arco all’assedio di Orléans. Dipinto ottocentesco di Jules Eugène Lenepveu imperniato sull’eroina della Guerra dei cent’anni.

Valerio Massimo Manfredi, docente alla Bocconi, scrittore, divulgatore e conduttore televisivo, è stato pesantemente sbeffeggiato dallo storico inglese Bryan Ward – Perkins nel suo The Fall of Rome and the End of Civilization (La caduta di Roma e la fine della civiltà), a causa del suo romanzo L’ultima legione (2002). Effettivamente non ci sembra che Ward – Perkins abbia tutti i torti, Manfredi offre ai suoi lettori una sorta di avventura di cappa e spada in cui i “buoni” sono tutti dei Romani, tranne gli spregevoli traditori naturalmente, mentre i “malvagi” sono tutti dei barbari. La visione che ne scaturisce dell’epoca tardo-antica, caratterizzata dallo sfaldarsi dell’Impero romano d’Occidente, dall’affermarsi del cristianesimo e delle migrazioni dei popoli germanici, è stereotipata, risibile, del tutto al di fuori delle attuali conoscenze. Afferma lo storico inglese, dando prova di un certo humour, che: «L’ultima legione, scritto da un professore di archeologia classica di Milano, è un romanzo popolare divenuto un best-seller, ed ora anche un film, ambientato nel tardo V secolo. I personaggi romani sono quasi senza eccezione uomini e donne nobili, ardimentosi e puri, che combattono contro difficoltà insuperabili per difendere l’ultimo imperatore e sostenere i valori dei giorni gloriosi di Roma. A un certo punto l’eroica compagnia, cristiani e pagani insieme, intonano il Carmen Saeculare, il grandioso inno di Orazio agli dei e alla gloria di Roma. Viceversa, i barbari sono dei distruttori, che adottano costumi romani soltanto se sono persuasi che ciò li agevolerà nella loro missione di soggiogare i Romani; sono brutali e crudeli, consumano incredibili quantità di carne avariata e di birra e hanno avanzi di cibo nella barba. Io sospetto che questo modo di vedere, di uno scrittore che vive a Bologna, sia dovuto alla vista dei turisti inglesi e tedeschi nelle pizzerie di Rimini non meno che al V secolo». The Fall of Rome and the End of Civilization, 2005, tr. it. La caduta di Roma e la fine della civiltà, Laterza, Roma – Bari 2010, pp. 205 – 206.

Insomma, dubito fortemente che una simile opera di narrativa, pur con tutte le deroghe e i distinguo di cui può beneficiare un lavoro di “letteratura popolare”, potrebbe mai essere presa seriamente in considerazione da qualcuno. Di sicuro non potrebbe mai incontrare il favore di Peter Brown, colui che ha coniato il termine tardo – antico (01), un periodo storico di transizione che va grossomodo dalla morte di Marco Aurelio all’avvento dell’Islam. Ritengo che Brown sarebbe inorridito da certe semplificazioni, nonché troverebbe risibili sino all’assurdo gli esiti arturiani della trama. A dire il vero, quantomeno a parere di chi scrive, Manfredi fece ben di peggio con L’impero dei draghi (2005), allestendo un incontro/scontro tra una Roma del III secolo dopo Cristo da film peplum e una Cina di fantasia, descritta a partire dagli stereotipi dei kung – fu movie. Qui non mancano la bella principessa cinese, il malvagio usurpatore, il vecchio maestro, i mistici poteri e persino dei guerrieri che ricordano i ninjia nipponici, le Volpe Volanti.

Si consideri poi come uno dei periodi più tragici della storia di Roma, la crisi del III d. C. (235 – 284), caratterizzata da instabilità politica e anarchia, con pezzi dell’impero che si distaccavano dal governo centrale, non sia affatto evocata in maniera adeguata (02); essendo stata trasformata in una specie di barzelletta, un miserabile incidente di percorso sulla via della gloria romana. Da uno storico di professione sarebbe stato lecito aspettarsi molto di più, anche all’interno di una pubblicazione non specialistica, una tipica lettura “leggera” da ombrellone. Sia L’ultima legione che L’impero dei draghi, pur avendo l’attenuante di essere delle avventure scacciapensieri, popolate per di più da personaggi monodimensionali e stereotipati, alla fine sono solo dei pessimi esempi da evitare.

A questo punto forse è meglio lasciar perdere le opere di Manfredi, dei fantasy avventurosi più che dei romanzi storici, scritti per lettori dalle poche pretese ai quali basta la descrizione di qualche cozzar di spade per esser soddisfatti. Le ucronie mi sembra che siano basate su presupposti più chiari e onesti. Certo, si è soliti dire che la storia non si fa con i “se”. Il che naturalmente è vero, pur ritornando con il pensiero agli avvenimenti passati essi permangono nella loro immutabilità. Eppure la storia contro-fattuale, o alternativa, detta pure ucronia, ha esercitato il suo fascino all’interno della cultura europea sin dall’Ottocento. Il termine uchronie, ucronia, venne infatti coniato nel 1876 da un filosofo francese, tale Charles Renouvier, che lo impiegò in un suo saggio dedicato agli ipotetici sviluppi della cultura europea. Indifferente alle alternative della civiltà occidentale, quanto piuttosto alla difesa militare del proprio paese, era invece l’anonimo autore inglese de The Battle of Dorking: Reminiscences of a Volunteer (La battaglia di Dorking), nel 1871 sul Blackwood’s Magazine, più tardi attribuita al tenente colonnello dell’esercito Sir George T. Chesney. Costui, impensierito dai successi militari conseguiti dalla Prussia di Otto von Bismarck, scrisse un finto memoriale nella quale immaginava lo sbarco di truppe prussiane sul suolo inglese. Dall’umile testo di Chesney nacquero in un colpo solo sia la fantascienza militare, quella che adesso è tutta imperniata su soldati futuribili e macchine hi-tech, sia quei romanzi basati sugli ipotetici esiti di qualche battaglia del passato. Effettivamente il mezzo più semplice e pratico per poter scrivere una ucronia, attirando sin da subito l’attenzione del lettore, è tessere una trama che prenda in considerazione l’esito di un noto scontro militare e/o il destino di qualche celebrità storica. Il perché è presto detto: prima di tutto per molto tempo, purtroppo, la storia è stata insegnata nelle scuole come se fosse solo una sequela ininterrotta di date, conflitti armati e delle imprese dei cosiddetti “grandi uomini”; escludendovi così regolarmente non solo il genere femminile ma anche la quasi totalità dell’umanità. Si spiegavano le tattiche militare e il genio di Alessandro Magno, di Giulio Cesare e di Napoleone ma si evitava di parlare delle condizioni di vita dei loro soldati e dei popoli che venivano di volta in volta assoggettati. È un modo di vedere lo studio del passato che seppure antiquato, erroneo e fuori moda, temo che sia duro a morire.

Umberto Eco.

Del resto il genere delle biografie dei “personaggi che seppero fare la storia”, non accenna a voler morire e ha i suoi fedeli lettori. Si tratta molto probabilmente di una variante di quel divismo che fa divorare giornali di gossip e libercoli sulle star del cinema, della musica e dello sport. Seppure lo studio delle ceramiche può dirci infinitamente più cose della romanità che una ricostruzione minuziosa delle orge di Nerone, è indubbio che il grande pubblico sia affascinato, anche in maniera un po’ morbosa, più dai costumi sessuali degli antichi che da un qualsiasi frammento di coccio. Se un accademico può dimenticarsi di questo fatto, a meno che non si occupi di divulgazione o decida di scrivere anche della narrativa, uno scrittore non può non tenerne conto. Anzi, il valore della sua opera, così come la possibilità di avere o meno successo, risiede proprio nella maniera in cui si è riusciti ad avvincere i lettori. Esistono però infinite gradazioni dal romanzo storico intellettuale e denso di significati, alla Marguerite Yourcenar o alla Umberto Eco per intenderci, all’ultima scempiaggine sui Templari. Il guaio è che se la storia non è per nulla fatta solo di grandi eventi e di roboanti “attori protagonisti”, è difficile non sfruttare il loro appeal in narrativa. Nella memoria collettiva essi sono legati inscindibilmente a ben determinati luoghi e periodi. Se trascurarli del tutto è impossibile, si può però lasciarli sullo sfondo.

Eco ha applicato questa regola per il suo Baudolino (2000), curiosissima opera imperniata su di un immaginario figlio adottivo di Federico I Hohenstaufen detto Barbarossa (1122-1190), un impenitente bugiardo ricolmo di inventiva. Il protagonista omonimo, Baudolino, vive avventure degne del miglior intrigo politico – religioso ambientato del XII secolo, oltre ad ancor più spericolate peripezie dal sapore fantasy legate ai racconti di viaggio del tempo (come quelli sul re cristiano d’Oriente Prete Gianni). I grandi dell’Europa occidentale e di Bisanzio a volte salgano alla ribalta nelle pagine del romanzo, eppure per la maggior parte del tempo essi appaiono in maniera più defilata, quali semplici accessori scenografici inseriti in Baudolino per rendere comprensibile a tutti l’epoca in cui sono ambientati. Per molti versi caratteristiche simili le riscontriamo anche in quello che è probabilmente il suo capolavoro assoluto, Il nome della rosa (1980). Ambientato nel 1327 in un non ben precisato monastero benedettino del Nord Italia, è ispirato dalla realtà tardo-medievale trecentesca tanto quanto dalla letteratura popolare (Arthur Conan Doyle, Ellis Peters), dalle suggestioni della semiotica e dai racconti fantastico-filosofici di Jorge Luis Borges. Quest’ultimo presente addirittura nella trama in qualità di personaggio, il cieco e arcigno Jorge che si richiama direttamente al poeta, scrittore e bibliotecario argentino. Se poi si rivolge la propria attenzione a un caposaldo della letteratura italiana come I promessi sposi (1840 – ’42) di Alessandro Manzoni (1785 – 1873), troviamo sia i fittizi popolani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella sia altri personaggi realmente esistiti nel Seicento, come il cardinale Federico Borromeo (1564 – 1631), considerato uno dei giganti di quest’epoca. Il che lascia sempre libertà al romanziere di stabilire a proprio capriccio i destini delle creature che ha plasmato, non essendoci stato tramandato nulla di loro nelle cronache, del resto tutte imperniante solo sulle imprese dei grandi della terra e assai poco interessate alle sofferenze degli umili.

Si ricordi comunque che c’è modo e modo per raccontare le celebrità storiche, storici come il Brown, con il suo studio su Sant’Agostino d’Ippona (Augustine of Hippo, Agostino d’Ippona, 1967) oppure artiste come la giapponese Ryoko Ikeda, insignita della croce della Légion d’honneur (Legion d’onore) per il suo fumetto ambientato all’epoca della Rivoluzione francese (Berusaiyu no bara, Le rose di Versailles, noto in Italia come Lady Oscar, 1972), hanno saputo raccontarci di santi o di dame di corte, tenendo ben a mente il contesto in cui essi erano inseriti. Volendo, scegliendo un personaggio realmente esistito, è abbastanza facile creare una ucronia proprio da qui, immaginando che cosa sarebbe successo “se”: Giulio Cesare avesse deciso di non recarsi in Senato durante le famigerate Idi di marzo del 44 a. C., Luigi XVI avesse accettato come inevitabile l’avvento della monarchia costituzionale in Francia, la regina Vittoria fosse morta di parto il 21 marzo 1840, etc. Tale via, ad esempio, è stata seguita da Norman Spinrad per il suo The Iron Dream (Il signore della Svastica, 1972) nel quale Hitler non riesce a diventare il dittatore della Germania ed emigra negli Stati Uniti (03). Qui le sue deliranti fantasie malate, intrise di razzismo e violenza, trovano sfogo nella sci-fi a cui il fallito tiranno decide di dedicarsi. Spinrad, con non poca ironia, immagina che Hitler abbia vinto il Premio Hugo nel 1954 e assembla il suo romanzo con un finto esempio di fantascienza hitleriana, accompagnato da un altrettanto fittizia postfazione che sottolinea la simbologia fallica, l’omosessualità latente e il feticismo presenti nel testo. Le cui pagine palesano le ossessioni e le psicosi dell’autore, l’Hilter-scrittore.

Riyoko Ikeda al Taipei International Book Exhibition del 2008 (Taiwan).

Dunque un personaggio inquietante nell’universo di Spinrad come nel nostro, seppur in questa linea temporale per fortuna non responsabile di una guerra mondiale e di un genocidio. Ritornando alla natura della ucronia, notiamo come talvolta pure gli storici prendono seriamente gioco intellettuale, onde poter smontare i processi storici come se si trattasse di complessi modellini. Un ottimo esempio, capace di offrire numerosi spunti, ci viene offerto da Peter Heather. Costui, volendo dimostrare che l’Impero romano d’Occidente è stato abbattuto più da pressioni esterne (i “barbari”) che dai propri problemi interni, provò a immaginare che cosa sarebbe potuto succedere se Maggioriano, uno degli ultimi imperatori della pars occidentis, fosse riuscito a strappare il Nord-Africa ai Vandali del re Genserico: «Facciamo ora un po’ di storia basata sui ‘se’. Una vittoria schiacciante su Genserico, in sé tutt’altro che inconcepibile, avrebbe prodotto tutta una serie di effetti a catena. Una volta riuniti Italia e Nordafrica, anche la Spagna sarebbe tornata all’ovile: […]. A questo punto, quando anche i tributi della Spagna avessero ricominciato ad affluire nelle casse dello stato, si sarebbe potuto avviare un ampio programma di ricostruzione della Gallia romana. […] Contrariamente a prima, il rinato impero romano d’occidente sarebbe diventato in realtà una coalizione, con sfere d’influenza gote e burgunde sostanzialmente autonome destinate a coesistere fianco a fianco con i territori governati direttamente da Roma: non più dunque la compagine unita e integrata del IV secolo. Ma il centro dell’impero sarebbe stato comunque il partner dominante della coalizione e la situazione strategica generale sarebbe tornata perlomeno paragonabile a quella del secondo decennio del V secolo, prima della perdita del Nordafrica […]. Comunque la si pensi, quella di un occidente rinato e saldamente in possesso dell’Italia, del Nordafrica, della maggior parte della Spagna e di vaste zone della Gallia era una prospettiva esaltante. Ancora nel decennio 460 – 470, dunque, non tutto era perduto: una campagna vittoriosa contro i vandali poteva interrompere il circolo vizioso del declino e garantire all’impero romano d’occidente un futuro prospero e unitario per chissà quanto tempo ancora». La caduta dell’impero romano. Una nuova storia, Garzanti, Milano 2008, pp. 477 – 478.

L’intero ragionamento di Heather, è imperniato sulla possibilità che un sovrano benintenzionato come Maggioriano (04) potesse ribaltare le sorti dell’impero. Dal suo punto di vista, il mondo romano era ancora sostanzialmente sano e quindi un condottiero con la sorte dalla sua parte, avrebbe potuto cambiare molte cose. La logica conseguenza di un simile teorema è infatti la seguente: se fosse bastato così poco a salvare la compagine imperiale, questo vorrebbe dire che essa non era mortalmente malata, degradata in modo irrimediabile. Un simile what if ci induce a vedere non un sentiero dritto, un rettilineo privo di sbocchi, che ci porta inesorabilmente sino al giorno stabilito per la definitiva dissoluzione dell’Impero romano d’Occidente: il 4 settembre 476, quando venne deposto l’ultimo imperatore, Romolo Augusto. Ora possiamo vedere un percorso decisamente più complesso, costituito da un’infinità di svolte e ramificazioni, in cui la romanità, aveva ogni volta la possibilità di scegliere tra salvezza e annientamento, finendo alla fine per imboccare tutta una serie di wrong turn. Naturalmente Heather è ben intenzionato a tirar l’acqua al suo mulino, attribuendo colpe del disastro ai non-romani e a semplici coincidenze sfortunate, volendo sottolineare la vitalità piuttosto che la crisi del mondo antico. Le sue ipotesi sono quelle tipiche di un Movers, di chi individua nelle migrazioni di popoli la causa principale della rovina dell’impero (05).

Lasciando perdere i dubbi, più che legittimi, che si potrebbe avere riguardo alle ipotesi di Heather, chi voglia ispirarsi agli accadimenti storici in narrativa non può che trovare suggestivi i suoi ragionamenti. Essi rappresentano un ottimo modello di costruzione ucronica, partendo dal suo what if potremmo non solo ricostruire una biografia immaginaria di Maggioriano ma anche spingerci ben oltre. Se si modifica la tessera di un mosaico, o di un puzzle, il disegno complessivo cambia e diventa incompleto ma qui, partendo dal nuovo frammento che noi stessi abbiamo introdotto, possiamo assemblare una figura del tutto nuova. Chi volesse imperniare la propria narrazione sulle imprese di un simile imperatore, vittorioso sui Vandali e organizzare dell’Impero d’Occidente su nuove basi, potrebbe pure impegnarsi nel descriverci un’Europa senza un medioevo vero e proprio. Naturalmente, quanto detto sinora vale per qualsiasi bivio della storia che vogliate impiegare nei vostri lavori di fantasia, il modus operandi è sempre il medesimo che ha impiegato Heather nel suo saggio. Il risultato sarà senz’altro più rispettoso della realtà storica di quei romanzi che affermano di aver tratto la propria linfa vitale dal passato, mentre al contrario quest’ultimo viene piegato alle esigenze narrative sino a diventare una novella fantasy, occultamente spacciata sottobanco per realistica.

Impero romano d’Occidente sotto Maggioriano (457 – 461).

Note

(01) Una buona definizione di tardo-antico la si può trovare in quest’agile manualetto, purtroppo non più ristampato da tempo: PETER BROWN, The World of Late Antiquity From Marcus Aurelius to Muhammad, 1971; Il mondo tardo antico. Da Marco Aurelio a Maometto, Einaudi, Torino 1974. Sempre di Brown segnaliamo anche: The Rise of Western Christendom, 1995; tr. it. La nascita dell’Europa cristiana, Laterza, Roma – Bari 2004.

(02) «Nel 271 l’imperatore Aureliano dovette circondare persino Roma con un lugubre muro militare. Anche l’unità dell’impero era minacciata dall’emergere di imperi locali: Postumo governò la Gallia, la Britannia e la Spagna dal 260 al 268; Zenobia di Palmira tenne sotto il proprio dominio parte delle province orientali dal 267 al 270. Il mondo romano si frantumava. I vari gruppi e le varie province si comportavano in modi molto diversi. Lungo le frontiere, ville e città venivano abbandonate improvvisamente; gli eserciti elessero in quarantasette anni venticinque imperatori, dei quali uno solo morì nel suo letto». BROWN, Il mondo tardo antico, p. 20.

(03) «Nella pagina contenente la biografia dell’autore era detto che Adolf Hitler, nato in Austria nel 1899, naturalizzato tedesco, invalido per avere respirato gas venefici durante la prima guerra mondiale, agitatore di estrema destra a Monaco dopo la disfatta, era giunto negli Stati Uniti nel 1919, prima che la Germania fosse diventata interamente comunista. Hitler, buon pittore, era entrato dapprima come illustratore ad Amazing Stories, e in seguito era diventato un apprezzato autore di fantascienza eroica. La sua opera più celebre è Lord of the swastika […]. Protagonista è Feric Jagger, biondo e imponente ariano dagli occhi azzurri, che vive tra un’umanità post-atomica in cui molti uomini, geneticamente mutati dalle radiazioni, sono, chi più chi meno, dei mostri». JACQUES SADOUL, Histoire de la science-fictione moderne, 1973; tr. it. La storia della fantascienza. Dal fantastico al capovolto, il genere letterario del futuro, ed. Garzanti, Milano 1975, pp. 311 – 312.

(04) Giulio Valerio Maggioriano, nato verso il 420 e morto nel 461, imperatore d’Occidente dal 457 sino al giorno della sua morte, quando venne fatto assassinare dal generale Ricimero, ha saputo conquistarsi gli apprezzamenti degli storici che hanno sempre guardato con favore alla sua figura. Ad esempio, lo storico inglese Edward Gibbon (1737-1794), autore della monumentale The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (Storia del declino e della caduta dell’Impero romano), ebbe parole di elogio nei suoi confronti, considerandolo un esempio di eccezionalità in un’epoca di declino. Di recente il giornalista e scrittore Giulio Castelli ha scritto persino un romanzo, imperniato sulle gesta di questo sfortunato quanto valoroso sovrano tardo-antico: Imperator. L’ultimo eroe di Roma antica, Newton Compton, Roma 2008.

(05) La distinzione tra Movers e Shakers è stata proposta da Guy Halsall (Movers and Shakers. The Barbarians and the Fall of Rome, in Early Medieval Europe, 8, 1999) e magnificamente sintetizzata da Edward James: «[…] i Movers sono coloro che ritengono che molti dei cambiamenti prodottisi nella tarda romanità furono il risultato dell’ingresso dei barbari nell’Impero; gli Shakers, invece, sostengono che il mondo romano fosse già lacerato da tensioni e che l’arrivo di piccoli gruppi di guerrieri barbari fu solo un sintomo e non la causa di tali cambiamenti. Halsall ha pure affermato che un terzo gruppo -secondo il quale non si verificò nulla di rilevante- va di fatto considerato l’ala estremista degli Shakers». Europe’s Barbarians. A. D. 200 – 600, 2009; I barbari, Il Mulino, 2011, p. 15. L’ucronia di Heather è derivata dalle idee dei Movers, altrimenti non avrebbe mai potuto immaginare che l’impero potesse essere salvato solo grazie a qualche battaglia vittoriosa. Al contrario, se uno Shakers dovesse scrivere una ucronia dubito che potrebbe pensare anche solo per un attimo qualcosa di simile. Dal suo punto di vista la compagine imperiale era già in agonia ben prima che arrivassero i barbari, i quali non fecero nient’altro che dare, per così dire, il colpo di grazia a una struttura che già di per sé era traballante. Come si può ben intuire, per chi ha una simile visione delle cose né Maggioriano, né qualsiasi altro comandante militare, sarebbero mai stati in grado di salvare da soli l’Impero d’Occidente.


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