Streghe – La Signora del Gioco – Saggio di Tatiana Martino


Streghe – La Signora del Gioco 

Di Tatiana Martino

Tratto da La Signora del Gioco, Viaggio alla scoperta delle stregonerie endemiche italiane, saggio di prossima pubblicazione di Tatiana Martino

Comprendere  la parola strega significa capire l’antropologia, la storia, le religioni persino i rapporti tra i sessi.  Abusatissimo l’etimo che vuole far derivare la parola dal latino “strix, strigis” che  indica –come pedissequamente ripetuto-  il barbagianni, uccello notturno che gli antichi credevano succhiasse il sangue dei bambini. L’appiattimento della figura prima e della parola strega poi, nel mondo classico, avviene in maniera graduale determinando così un’assimilazione anche iconologica se vogliamo, tra il I sec. a. C. e il I d. C.,  Ovidio, autore delle “Metamorfosi”,  a tal proposito così si esprime in  Fasti 6, 131 ss. :

 

“Vi sono ingordi uccelli, non quelli che rubano il cibo

dalla bocca di Fineo, ma da essi deriva la loro razza:

grossa testa, occhi sbarrati, rostri  adatti alla rapina,

penne grigiastre, unghie munite di uncino;

volano di notte e cercano infanti che non hanno accanto la nutrice,

li rapiscono dalle loro culle e ne straziano i corpi;

si dice che coi rostri strappino le viscere dei lattanti,

e bevano il loro sangue fino a riempirsi il gozzo.

Hanno il nome di Strigi: origine di questo appellativo

è il fatto che di notte sogliono stridere orrendamente.

Sia che nascano dunque uccelli, sia che lo diventino per incantesimo,

e null’altro siano che vecchie tramutate in volatili da una nenia (…)”

(trad. L. Canali)

Ovidio  ci regala un altro saggio etimologico: l’accostamento del termine “strigae” al verbo  “strideo”  e/o “strido” con significato di  “stridere”, ma anche “bisbigliare”, “mormorare” preferirebbero i greci, e ancora “sibilare” che le associa a un altro animale emblematico e altamente simbolico come il serpente; con grande suggestione in qualche modo le avvicina alle Sibille, attraverso il termine “risonare”, come un vaso vuoto pronto a contenere chissà quale dio.

Per Ovidio dunque, esistono due tipi di strigae  quelle tali dalla nascita (quindi uccelli-vampiro) e le vecchie donne capaci di tramutatasi in volatile attraverso ”mala carmina”, ossia gli incantesimi.

La “strix” etimologica coincide con quella di Ovidio ed è sicuramente barbagianni e non, come erroneamente si vuole, civetta. La civetta infatti viene in quest’epoca chiamata con nome più popolare amma, che significa nutrice.

Qui si verifica il dualismo tipico del simbolo. Striga e Amma sono due facce di uno stesso archetipo.  La “striga”  si connota  infatti come una “amma” a rovescio:  il suo latte è veleno per qualsiasi neonato e la sua vocazione non è più proteggere ma cacciare. Il ruolo è ribaltato, da balia che allatta in balia che prosciuga, invece di dare il latte, toglie il sangue, diviene dunque da dispensatrice di vita a latrice di morte. Non una creatura che sovverte i caratteri positivi di donna e di madre e che si vorrebbe collocare a metà tra umano e bestiale ma quanto di più vicino vi è in natura alla Dea Madre nel suo aspetto di Crona, di Anziana. La “Striga” diventa così figura psicopompa, accompagna (o ruba) i bambini dalle culle verso gli Inferi.

  La fusione della figura animale con quella di donna è già attuata quando Petronio, per artificio letterario, nel Satyricon (cap. 163) decide di farne “creatura della Notte”

“(…) esistono femmine che la sanno lunga, creature della Notte, e quello che sta in su lo fanno andare in giù.”

 (trad. A. Aragosti)

   Molti critici si ostinano a vedere in questo passo un “terribile atto di rovesciamento dell’ordine”, dimenticando l’intento narrativo di voler produrre una determinata atmosfera ai fini di un racconto, invece di ravvisarvi  il “deducere lunae”, l’arte tanto cara alle maghe tessale di chiamare a sé la Luna, quindi un atto di comunione e comunicazione profonda con la Natura, e non un sovvertimento dell’ordine, che viene invitata (ne è prova semiologica quel “de”, infisso che indica un invito) ad avvicinarsi e a benedire le sue Figlie.

   Strumentazione narratologica e narrativa che fa anche Orazio con le figure –palesemente caricaturali, fin dai nomi- di Canidia e le altre veneficae, sorta di ipostasi giambica, sul modello della Neobule archilochea, quasi che Orazio avesse sentito il bisogno di crearsi anche lui, come il predecessore greco-arcaico, un bersaglio esemplare per la propria vis giambica. Con la sua iconografia di ‘vecchia strega’, in special modo per il dettaglio grottesco del  groviglio di vipere intrecciate ai capelli, Canidia, come osserva  A. Cavarzere, ricorda Gorgò, Mormò e tutto quell’universo di figure femminili connesse all’origine mitica del giambo, le quali “hanno in comune i tratti della bruttezza sconcia e talvolta mostruosa, e rientrano generalmente nella sfera emotiva delle fobie e dei timori infantili” (E. Pellizer). Orazio, dunque nel quinto dei suoi Epodi (Il Profumo della Strega), descrive Canidia, Sagana, Veia e Folia nell’atto di sacrificare un fanciullo alla luce della Luna, con lo scopo di preparare un  filtro con i suoi umori. Questa tipologia iconologica di streghe latine, probabilmente, deriva dalle furie greche: Aletto, Tisifone e Megera, nate dal sangue sgorgato dall’evirazione d’Urano, avevano il compito di punire gli spergiuri irrispettosi della dea-madre terra, che venivano meno al decoro richiesto nei costumi familiari. Raffigurate come vecchie orribili con la testa di cane e il corpo di colore nero,  “anguicrinite” proprio come  la Canidia oraziana, recano sul dorso grandi ali di pipistrello. Era costume non nominarle mai, oppure erano chiamate Eumenidi, le Benevolenti.

  Il facile appiattimento dell’etimo sulla mitologia  vuole  dunque la strega  anche  “vampiro”. L’assimilazione con la regina libica Lamia, amata da Zeus, è un passo semplice considerando il meccanismo linguistico che vede mito e parola sposarsi per generare concetti.

Filostrato, si riferisce a “lamia” come espressione popolare sinonimo di  Empusa, ma in realtà queste due figure mitologiche possono ritenersi  ben distinte sebbene abbiano in comune alcuni tratti tra i quali una predilezione per il sangue umano.
Lamia, personaggio mitologico, era figlia del re libico Belo, ebbe la disgrazia di essere amata da Zeus che le diede numerosi figli. Questo scatenò al solito le ire di Era, la quale fece sì che i figli di Lamia morissero strangolati (solo Scilla, il mostro situato sullo stretto di Messina di cui narra l’Odissea, riuscì a scampare al massacro). Non contenta Era, punì ulteriormente Lamia privandola del sonno ma Zeus le concesse il privilegio di potersi togliere gli occhi ed appoggiarli dentro un vaso per poter riposare: quando Lamia era priva degli occhi non era pericolosa.  Si nascose, così, in una caverna alimentando la sua disperazione con la gelosia verso le madri più felici di lei delle quali spiava i figli per poi rapirli. Il suo nome, Lamia, sembra essere apparentato con lamyros (ingordo) da laimos (gola), e il suo orribile volto è la maschera profilattica della gorgone, usata dalle sacerdotesse durante la celebrazione dei misteri di cui l’infanticidio era parte integrante. La leggenda degli occhi di Lamia, secondo R. Graves,  fu probabilmente tratta da una raffigurazione della dea nell’atto di conferire a un eroe capacità divinatorie offrendogli un occhio. Lamia rimase, con le medesime connotazioni di divinità malevola, anche nella cultura romana  e presto venne  associata alla figura della strega, dalla quale rimase inscindibile anche nel Medioevo e nel Rinascimento:  probabilmente perché i delitti erano compiuti prevalentemente con il favore delle tenebre e vittime designate erano i bambini (dei quali le streghe rinascimentali  cercavano soprattutto il grasso, per preparare unguenti, e il sangue, che per la sua purezza poteva far da tramite col demonio)

   Le lamie, ibridi strigiformi  invece  si univano alle empuse quando esse apparivano nei trivi e insieme cercavano i giovani per berne il sangue dopo averli sfiniti con i rapporti sessuali.
Una scultura ellenica, conservata al British Museum, raffigura le lamie che corrono con un bambino stretto fra le braccia, del quale probabilmente poi berranno il sangue; hanno un paio d’ali spiegate e i lunghi capelli fermati con un monile a forma di teschio.

  Qui l’ambivalenza del simbolo “donna” viene a sposarsi con un ambivalenza di tipo culturale poiché sia il popolo greco che quello romano manifestavano atteggiamenti contradditori nei confronti delle donne, una sorta d’ammirazione/timore: accanto alle capacità seduttive convivevano enormi potenzialità distruttive in un’incapacità di riconciliare un’unità archetipale ormai infranta da sovrastrutture date dalle contingenze storiche.
La stregoneria e le arti magiche erano una realtà nell’antica Roma e furono praticate in maniera continua  anche se considerate reato.  Apuleio  per esempio fu processato per magia e addirittura scrisse un’orazione giudiziaria per difendersi, il De magia. Nelle Metamorfosi, descrive la strega Panfila  così

“Essa ha fama di essere una maga di primo ordine e di conoscere tutte le formule magiche con cui si evocano i morti: è una strega che, soffiando sui ramoscelli e pietruzze e altri oggetti insignificanti, è capace di trasferire la luce dell’universo stellare nelle profondità del Tartaro e nel caos primigenio…”

(Metamorfosi,  II, 6)

    Cicerone, accusò un suo nemico, Vatinio, con queste parole

“Tu hai l’abitudine di evocare le anime degli inferi, e di placare gli dei Mani con le viscere dei bambini…”

(Contro Vatinio, 6,14)

Che fosse pratica comune e reale, sacrificare crudelmente i bambini in riti, è testimoniato  anche dal triste epitaffio trovato alle Esquilie, che così recita:

“Giocondo, figlio di Grifo e di Vitale. Mi avviavo verso il quarto anno, ma sono sotto terra, mentre avrei potuto fare la gioia di mio padre e di  mia madre. Una strega crudele mi ha tolto la vita. E’ ancora sulla terra, lei, e pratica ancora i suoi pericolosi artifizi. Voi, genitori, custodite bene i vostri bambini, se non volete avere il cuore trapassato dalla disperazione. “

    Le Leggi delle Dodici Tavole si erano pronunciate anche contro i “mala carmina”:

VIII, 1

Qui malum carmen incantassit… qui fruges excantassit… neve alienam segetem pellexeris.
-Chi avrà pronunciato un carme funesto di magia… chi avrà fatto incantesimi sulle messi… non si eserciti attrazione sulle messi altrui.

  Silla nell’81 a.C. si vede costretto a promulgare la Lex Cornelia de sicariis et veneficiis per cercare di contenere il fenomeno diffusissimo della “bassa magia” (l’esercizio di una potenza soprannaturale per scopi malefici), opposta all’”alta magia” (il mezzo grazie al quale si entrava in contatto con la divinità. Altra credenza molto diffusa era  che un uomo o una donna qualsiasi potessero acquistare poteri soprannaturali attraverso pratiche speciali; ad esempio, chi odiava qualcuno poteva defiggerlo, cioè esercitare la “defissione”, pratica attraverso la quale, con riti ben precisi,  lo si consacrava alle divinità infernali:

In una lamina di piombo si scriveva il nome esecrato, con una formula di maledizione, successivamente si inseriva la lamina entro un sepolcro, più raramente in un tempio o in un pozzo, entro una sorgente d’acqua calda, di solito fissandovela con un lungo chiodo passato attraverso la lamina. Il nome dei defissi veniva scritto sempre con cura, per il timore che un’indicazione poco esatta rendesse inefficace la defissione. Alle formule imprecative si alternano nomi di divinità e geni inferi cui si consacrava anche qualche parte del corpo del defunto: la lingua di solito, o anche le mani, i piedi o la punta dei piedi; orecchi, narici, cervello, unghie, malleoli, sopraccigli, polmoni; quasi sempre l’intelligenza e  l’anima. (Paoli)

   In una defissione,  rivolta da un gladiatore contro il suo avversario troviamo:

“Uccidete, eliminate, ferite Gallico, generato da Prima, in quest’ora stessa entro la cinta dell’anfiteatro.

Legategli i piedi, le membra, i sensi, il midollo.

Bloccate Gallico generato da Prima, perché non possa uccidere l’orso e il toro né con un sol colpo, né con due colpi, né con tre colpi.

In nome del dio vivo, onnipotente, esauditemi, adesso, adesso, presto, presto. Che l’orso lo urti e lo ferisca! “

   I luoghi privilegiati per praticare la magia erano i cimiteri, dove le donne andavano nascostamente a raccogliere ossa ed erbe per le loro pozioni magiche, per preparare filtri d’amore o misture  per provocare la morte di un nemico, o anche per celebrare cerimonie e sacrifici. Da qui il termine “venefica”, “avvelenatrice”.
Ma le pratiche magiche in uso al tempo dei Romani  non servivano esclusivamente a scopi malefici spesso erano usate anche per scopi benefici  per ri/conquistare la persona amata, per allontanare il malocchio, per scongiurare il male. Da questo lato meno approfondito della strega romana, l’altro termine per indicarla, “saga”,  che significa sì “indovina” ma è termine legato a “sagacitas”, acutezza di ingegno, non ancora “saggezza” che la “sapientia” è ancora appannaggio del popolo alto. A sostegno di questo assunto ci viene in soccorso Cicerone nel De Divinatione

   “Sagire, difatti, significa aver buon fiuto; donde si chiamano sagae le vecchie fattucchiere, perché pretendono di saper molto, e “sagaci” son detti i cani. Perciò chi ha la sensazione (sagit) di qualcosa prima che accada, si dice che “pre-sagisce”, ossia sente in anticipo il futuro .”

   Nell’antica Grecia, esser strega –anzi maga- è appannaggio di rango divino. Si pensi al lignaggio di Circe, di Medea direttamente imparentate con Ecate, titanide superiore persino a Zeus e protettrice –in epoca tarda- di tutte le streghe. Tuttavia  sono sempre rappresentate come malefiche, pericolose ma soprattutto, straniere. La prima operazione magica descritta in greco si trova nel libro X dell’Odissea:

“Disse così ed essi con grida chiamarono. […]
Li guidò e li fece sedere sulle sedie e sui troni:
Formaggio, farina d’orzo e pallido miele mischiò
Ad essi col vino di Prammo; funesti farmaci
Mischiò nel cibo, perché obliassero del tutto la patria
Dopochè glielo diede e lo bevvero, li toccò subito
Con la bacchetta e li rinserrò nei porcili.
Dei porci avevano il corpo: voci e setole
E aspetto. Ma come in passato la mente era salda.”
(Odissea, X,230-240)

   Qui ritroviamo tre elementi tipici che confluiranno, in età moderna, nella raffigurazione della strega: la pozione magica, la bacchetta, la capacità di trasformare gli uomini in animali. Circe, però, è diversa dalle laide streghe romane al contrario è bella, carica di forza erotica, ammaliatrice e tentatrice. Unico legame tra le due figure resta il connubio strega-lussuria,  già presente fin dai primordi. Non è solo in grado di trasformare gli uomini in bestie ma sa predire il futuro, sa evocare gli spiriti dei morti.  E’ lei a suggerire a Odisseo la maniera di comunicare con i defunti ossia scavando una fossa, offrendo libagioni di miele e latte e sgozzando due pecore nere, in modo da farne sgorgare il sangue che i morti berranno per acquistare il vigore necessario a parlare con i vivi.

    Ben più tragica e complessa è la figura di Medea, anch’essa simbolo di una femminilità diversa, isolata e potente. Come Circe è straniera e, sebbene sia figlia di re, sempre circondata da un’aurea di solitudine e incomprensione, come Circe è bella e piena di potenza erotica, ma gli uomini fuggono da lei.

   All’abbandono dell’amante, Medea fa seguire l’ennesimo atto che la configura come femminilità altra e ambigua: l’uccisione dei suoi figli.

     Entrambe accomunate da venefici, evocazioni infere, bellezza e lussuria, non ultimo l’infanticidio  ma soprattutto dalla capacità di esercitare tutti e tre i tipi di magia la pharmakéia, la maghéia e la goetéia, tripartizione  questa che sarà continuata in pieno Quattrocento dai filosofi naturalisti come Cardano, Della Porta, Campanella. Anch’essi, come gli antichi Greci, vedevano nella pharmakéia la pratica magica legata alla conoscenza delle erbe e dei loro principi medicamentosi, la maghéia la pratica con i misteri divini (nel tardo Quattrocento considerata di derivazione ermetica, orientale, cabalistica, attraverso la quale l’uomo colto si avvicina ai misteri divini, alla ricerca della conoscenza e della perfezione) e infine la goetéia considerata l’Arte del trattare con le potenze infere e le anime disincarnate. Un preconcetto nei confronti delle donne voleva che queste fossero le più capaci di possedere l’arte della goetéia,  preconcetto che si manterrà vivo in tutto il Medioevo cristiano e nei tribunali dell’Inquisizione.

   Ma il trait d’union sicuramente più saldo tra streghe romane e greche è la venerazione per la stessa divinità, che in epoca odierna metterà i ricercatori seri in condizioni di parlare di vero e proprio “culto”, Ecate.

 Dea dei morti, degli inferi, intermediaria fra umano e divono, dea degli incroci, della luna, delle tre sfere dell’esistente, mare, cielo e terra, protettrice dei cani, benevolente verso chi la prega, portatrice di luce…

Sull’origine di Ecate vi sono due tradizioni: Esiodo la vuole Titana, secondo una tradizione più tarda sarebbe figlia di Zeus e Hera. In un inno a lei dedicato, Esiodo dice che Zeus “la favorì più di tutti gli altri dei” probabilmente perché intermediaria fra gli esseri immortali e quelli terrestri.

Nel famoso episodio del ratto di Persefone,  Ecate è presente e la accompagna agli inferi, da quel momento “la regina Ecate divenne colei che precedeva e seguiva Persefone”: pertanto, è guida e protettrice. In tal modo, essa acquisisce una nuova caratterizzazione e il ruolo più ampio e generalizzato di traghettatrice delle anime dei defunti.

A Roma, Ecate è detta Trivia: preposta al trivium la zona di incontro di tre vie, dove si credeva  che i fantasmi –le larve dei defunti- vagassero senza posa come anime in pena in una sorta di Limbo, dopo una morte prematura o violenta perciò questi luoghi erano  teatro delle sue invocazioni.

    Nell’iconografia tradizionale è rappresentata come figura luminosa portatrice di tre “faci”, fiaccole, che illuminarono la strada a Proserpina, dal triplice aspetto e dal triplice volto: umano nella sua forma terrestre, equino nella sua veste lunare e canino nel suo habitus infernale.

E’ anche divinità che presiede alla nascita e alla morte venendo invocata – non a caso – in momenti astrologici di particolare pregnanza simbolica, come ad esempio il plenilunio. In questa circostanza a Ecate venivano offerti dei banchetti rituali. E’ protettrice dei giovani.

Un frammento greco ci presenta un suo ritratto:

“con volto di cane, tre teste, inesorabile, con dardi dorati …”.

Ecate è anche dea-strega e si accompagna a cagne ululanti: queste si credeva accompagnassero la dea durante le sue apparizioni e potevano portare l’uomo alla pazzia. La loro funzione era quella di esaudire le invocazioni e le maledizioni pronunciate dal mago nel corso delle cerimonie negromantiche, in cui non si mancava mai di pronunciare il nome di Ecate. Per chiedere l’aiuto di Ecate si ricorreva all’utilizzo di simboli, emblemi o mezzi magici, come la cosiddetta “trottola di Ecate”, una sfera dorata costruita attorno a uno zaffiro e fatta girare tramite una cinghia di cuoio, con sopra incisi dei caratteri. Facendola girare  era possibile operare evocazioni. Girandolo, produceva dei suoni particolari, imitando il verso di una bestia, si dice “ridendo o facendo piangere” l’aria

Ecate è “il” limine e “in” limine tra uomo e dei. Gira di notte con un Corteo di cui fanno parte tra gli altri le lamie, le empuse e le mormo, che talvolta ne annunciano l’arrivo o la rappresentano con il loro palesarsi.
Dall’epoca antica ci sono pervenute ben poche informazioni su queste figure mitologiche, ma pare accertato che avessero un ruolo iniziatico consistente nei culti misterici di Ecate, del quale ben poco o nulla si sa.

Per le streghe romane, come ci tramanda Ovidio,  Proserpina e Diana assicurano mantenimento a chi le adora e le streghe stesse si incontrano in segreto per celebrarne i misteri connessi al loro culto. Proserpina è figura legata a Ecate dal mito, come già detto e, in tempi successivi, verranno assimilate in un’unica triade con Diana. Ovidio inoltre parla di un libro di incanti il Libros Carminum, dove sarebbe descritto anche il famoso carmen che rende possibile portare giù la Luna dal cielo.

Ma se durante l’epoca classica ci si riferiva alla strega in questi termini, maliarda e megera, cui ci si rivolgeva con fiducia o con terrore, eppure – nonostante le leggi in loro sfavore- si finiva per ben tollerarle quando ancora si rispettavano gli dei di tutti, con l’avvento del Cristianesimo le cose cambiano.

   La nuova religione immette un paio di concetti estranei al mondo classico, che sono quelli di peccato e conseguente dannazione eterna e quella di un’entità così perversamente maligna da pervadere con il “suo alito” tutte le manifestazioni e gli ambiti della Vita. Mai la misoginia, prima d’ora, nel corso dei secoli della storia occidentale aveva toccato dei limiti di follia come quelli che arrivò a toccare dal Quattrocento in poi a opera del Cattolicesimo, del Calvinismo, del Luteranesimo, dell’Anglicanesimo,  in buona sostanza di quelle correnti portatrici del germe del Cristianesimo. Uno stornello popolare del 1400, sulla donna, da la misura di quanto affermato, la definisce infatti

  “Dolor senza consiglio, sacco senza fondo, febbre continua che mai non fina, bestia insaziabile, foglia menata al vento, canna vuota, pazza scatenata, male senza niun bene, in casa un demonio, nel letto un cesso, nell’orto una capra, immagine del Diavolo”.

Vi si rispecchia la considerazione che si aveva, in genere, della donna fin dal Basso Medioevo. Si accennano qui i primi bagliori della caccia alle streghe, via via sempre più massiccia fino a divenire sterminio che coinvolgerà non solo la donna ma il “diverso” e quindi con lei omosessuali, reietti, emarginati. Tra il disprezzare e il torturare e uccidere il passo fu breve e legittimato a suon di versetti biblici dal Dio cristiano in persona se persino individui considerati ancor oggi Santi della Chiesa, come il Borromeo (uno su tutti) mandarono a morire innocenti rei solo d’esser dei reietti. Le cause della persecuzione, in ogni caso, sono complesse e dell’epoca delle cacce ci sono pervenuti pochi testi ma eloquentissimi.

Il giurista Jean Bodin, e molti della sua schiatta, raccomandavano di bruciare le presunte streghe e di bruciarle vive. Questa mentalità sarà dura da estirpare se si pensa che alle streghe del 1400 venivano poste le stesse domande che le streghe del 1600 si sentiranno porre dall’inquisitore durante la tortura. Le streghe del 1600, a loro volta, descriveranno il diavolo con le stesse immagini –se non parole- usate dalle loro sorelle nel dolore, due secoli prima. Se dal 1400 al 1700 fiorirono straordinari cambiamenti in Europa, la persecuzione delle streghe indossò sempre la stessa lugubre tonaca.

Dall’epoca classica all’epoca dei roghi vi è una frattura che consegna la strega dalla realtà alla fantasia. Una fantasia malata, quella degli assassini. Diventa difficile ricostruire un culto antico che è in realtà “culti”, frutto di persistenze e mutamenti endemici, legati al territorio, anzi alla terra. Perché la strega, quella vera, è un frutto di terra. E’ erbana, guaritrice, levatrice. E’ colei che aiuta il trapasso e favorisce la nascita. E’ colei che intuisce le forze spirituali, e per far questo non c’è bisogno della sapienza dei fini teologi, che circolano fra l’essere umano e la Natura. Il loro sapere andava ben oltre la conoscenza delle virtù sedative di una pianta, si relazionava con le proprietà spirituali delle erbe. Per loro realtà sensibile e realtà spirituale si sovrapponevano e rientravano perfettamente nel ciclo della Natura. Diventa secondario e non necessario a questo punto la ricostruzione dei movimenti cultuali di cui pure siamo a conoscenza, spesso, troppo spesso perché qualche anima straziata dalla tortura si lasciò sfuggire un accenno in un momento di debolezza. E’ il caso de  “la Signora del Gioco”, immagine ricorrente nelle confessioni che le donne accusate di stregoneria, alla fine del XIV secolo, rilasciavano nei processi intentati dall’Inquisizione. Ora chiamata Dominae Ludum, Erodiade, Madonna Oriente, appare in tutte le tradizioni popolari di buona parte d’Italia e non solo e ha il potere di resuscitare dalle ossa gli animali uccisi. Ella non è altro che quella Bona Dea, Grande Madre dell’antico Latium, ora moglie, ora sorella di Fauno, talvolta identificata  con Fauna, quindi una incarnazione della Madre Terra. Secondo la versione riportata da Lattanzio, è moglie abile in tutte le arti domestiche e così pudica da non uscire dalla propria camera per non vedere altro uomo che suo marito. Un giorno, però, trovato un otre di vino, si ubriacò, e per questo suo marito Fauno la uccise percotendola con verghe di mirto (da cui il divieto di introdurre il mirto nel suo tempio e pronunciare la parola vino).
Caratteristica comune delle diverse forme di celebrazione del culto, quella ufficiale, di stato, che si teneva a Roma, nel tempio situato sull’Aventino, durante il quale si sacrificava una scrofa incinta, e quella privata, notturna, misterica, orgiastica, che poteva svolgersi anche all’interno di case importanti, come quella di Giulio Cesare, era l’esclusione di qualunque figura maschile, compresi gli animali. Il rito era certamente volto ad una esaltazione del potere magico femminile. In particolare, si evocavano fortuna e salute (nel tempio si aggiravano serpenti ed era custodito un magazzino di erbe medicinali), mentre non si conoscono i particolari dei misteri notturni (sembra che uno degli appellativi della Dea fosse “Domina”). Anche la Grotta di S. Angelo, nei pressi di Palombaro, sulla Majella, si suppone fosse un santuario dedicato al suo culto. Secondo la leggenda, il bagnarsi le mammelle con l’acqua che sgorga all’interno della grotta avrebbe favorito l’abbondanza di latte. A tale culto si sarebbe sovrapposto poi, con la cristianizzazione, quello di Sant’Agata, preposta dalla devozione popolare appunto a tale abbondanza.

“Ci sono donne scellerate, pervertite da Satana, sedotte dalle illusioni e dai fantasmi diabolici, che credono e sostengono di andare la notte con una dea pagana, Diana, e con Erodiade, insieme a una folla sterminata di donne, cavalcando sopra animali. Credono e sostengono di percorrere, nel silenzio della notte profonda, grandi spazi, obbedendo agli ordini della loro signora, e di essere chiamate a servirla in certe notti”

(Canon Episcopi).

    Gli inquisitori non si fecero scrupoli a caricare di significati negativi la figura di Bona Dea, posta alla guida del  Ludus Bonae Societatis, strumentalizzando l’eco delle orgiastiche feste pagane caratterizzanti la ritualità classica. Il prototipo dei cortei di Diana medievali  è bellamente ricalcato da descrizioni che ritroviamo nei classici, così per esempio, Giovenale descrive i misteri della Bona Dea:

“Sono ben noti i misteri di Bona Dea, quando il flauto eccita i fianchi, e si muovono esaltate dal suono del corno e, insieme, dal vino e, Menadi di Priapo, fanno ruotare la chioma e urlano. Quanto è, allora, impellente, in quegli animi il desiderio di amplesso! Quale voce quando la libidine si sommuove! Quale torrente di vino vecchio scorre per le madide cosce!” (Satire, VI, 314) […].

(“La Stregoneria” di Massimo Centini, tratto da “L’inquisizione capitolo 4”)

Le feste romane della Bona Dea, dunque come le Priapeia, che avevano nell’orgia un elemento dominante furono  sicuramente  condizionanti al livello di un immaginario già perverso e malato, destinato ad alterare la serena interpretazione dell’effettiva dimensione rituale del ludus medievale intriso di atavica cultualità agraria.

Questo mito, a partire dal 1500, viene sostituito dal diavolo e dalle sue varie trasfigurazioni. Durante il 1300 le donne vengono processate con l’accusa di eretici vaniloqui sull’incontro con strabilianti figure, come Madonna Oriente.

“Eri sempre stata al gioco di Diana, che voi chiamate Erodiade e arrivata alla presenza della Signora, sempre le facesti la riverenza inclinando la testa e salutandola con queste parole: Salute a te, Signora Oriente. E lei vi rispondeva: State bene, brava gente. La suddetta Oriente istruisce i membri della sua compagnia su qualsiasi problema le pongano e predice le cose future e quelle nascoste; insegna a voi della compagnia i poteri delle erbe e, dai segni che le presentate, vi fa vedere tutte le cose che chiedete riguardo malattie, furti o malefizi. E così vi insegna a fare e trovare che ogni cosa da lei mostrata è la verità (…) Dicesti che in quella compagnia si uccidono animali e se ne mangiano le carni. Gli ossi però vengono riposti nella pelle e la Signora, con una bacchetta che tiene in mano con un pomo, percuote la pelle degli animali uccisi e questi subito risorgono. Dicesti inoltre che la Signora e la sua compagnia si recano nelle case e qui mangiano e bevono e si rallegrano molto se trovano case pulite e ordinate; allora la Signora dà la sua benedizione alla casa. Dicesti poi che voi di questa compagnia non nominate Dio quando vi trovate assieme né quando decidete di recarvi alle riunioni. Interrogata se lei si fosse data al demonio, risponde affermativamente”

(Frate Beltrame, inquisitore).

Nel 1384 e poi nel 1390, due donne, Sibilla de Laria e Pierina de Bugatis, furono processate davanti all’inquisitore di Milano con l’accusa prima di superstizione, per aver partecipato al cosiddetto Gioco di Diana, e in seguito di stregoneria. Dopo esser state sottoposte a tortura, le due imputate confessarono che nei riti ai quali avevano partecipato, accanto alla “Domina Ludi” aveva preso parte lo spirito “Lucifello”, ossia il demonio, e per questo furono condannate al rogo.

     Gli inquisitori trasformano parole come queste in fatti di cui le donne devono rilasciare confessione, una posizione di colpevolezza abbastanza strana se si considera che richiede la confessione della colpevole per essere tale. Per questo, l’inquisitore aiutato dal braccio secolare non si faceva scrupolo a estorcere confessioni  attraverso la tortura secondo sostenuto dal sistema giuridico dell’epoca. Ancora più singolare è la forte volontà di continuare a relegare le donne al ruolo passivo di oggetto del desiderio, in questo caso diabolico, benché si riconoscesse loro il movente della colpa. Poche resistettero ai supplizi dei carnefici: tra queste Franchetta Borelli che non dichiarò mai di essere strega e che sopravvisse ai tormenti e –già anziana e storpia- fu liberata o  Barbara Marostega, anziana anche lei che rifiutò di definirsi una strega e mori prima che riuscissero a farglielo dire. La maggior parte delle tradotte in carcere e poi affidate al boia parlò di una religione cattolica rinnegata e rovesciata, resa blasfema dall’aver trasformato in culto il pregare, banchettare e copulare insieme in onore di una fantomatica divinità, per giunta femminile. In un contesto storico e linguistico come questo, l’immagine che si vuole incarnino le donne deve  confermare l’idea maschile del bene e, nella tessitura dell’immaginario, il femminino ricostruisce la sua immagine abnorme e scandalosa ma anche paradossalmente antifallica. La stregoneria, così intesa, fu capace di attivare schemi,  più che primitivi, primordiali e archetipici di intervento sulla Natura, non diversi da quelli riconoscibili nei riti sciamanici ai quali l’etnopsichiatria riconosce oggi credibilità. La storia ha avuto agio di sottolineare che ogni qualvolta una morale maschile ha avuto modo di stabilire ciò che è bene e ciò che è male, ha svilito la figura femminile relegandola a una icona perdente, togliendole ogni significato in proprio nell’opposizione di carnefice e vittima. Il processo inquisitorio riveste eccezionale importanza nella scoperta/invenzione del diavolo e della sessualità “prevertita” e i giudici non erano affatto agenti involontari e inconsapevoli di una esplicitazione di una perversione che riguardava tutti. Essi scoprivano quello che volevano scoprire attraverso l’abuso del proprio potere.  Quando si rasentò l’esplicitezza (ne è un esempio il processo di Anna Maria Sertora), siamo al termine della persecuzione giudiziaria. La violenza con cui la Sertora si rivolse alla parte da cui in realtà veniva subita la reale seduzione del Male, fu come un segnale. A questo punto il giudice cede volentieri il posto all’esorcista e al medico. La scena processuale diventa luogo dove si è costituito un linguaggio, una interpretazione del mondo. La sessualità, complici le tradizioni popolari, come proiezione inconscia di un’epoca che, oggi, gli esperti riconoscono affetta da demonomania è il luogo terminale di questa lotta fra donne e potere maschile. Ma altre interpretazioni sono state rese possibili dalla materia storica. Mentre va scolorendosi “il grande fogo della Signora” mito di un’epoca in via di superamento, “ardono in primo piano gli incendi della rivolta e i roghi della repressione”.

   Secondo Mircea Eliade, i sabba medievali esprimerebbero una protesta radicale contro la situazione religiosa e sociale al tempo dell’inquisizione, rivendicando il bisogno di festa primitiva e il recupero della libertà di culto, meglio di una spiritualità libera, in un tentativo estremo di riappropriarsi del proprio ritmo vitale entrando in contatto con le forze vivificatrici della natura.

Tutte le pratiche conosciute del rito sabbatico, presentano caratteristiche comuni che hanno evidenti contatti con le antiche feste in onore di Dioniso: è presente un unguento da spalmare sul corpo (probabilmente una sostanza psicotropa mista); i partecipanti indossano abiti discinti o preferiscono la nudità; si cingono il capo con corone di foglie; la celebrazione avviene in luoghi sacri al paganesimo come boschi o anche cimiteri; è imbandito un banchetto ricchissimo (forse con pratiche omofagiche per i riti di Dioniso, ma non furono mai provate relativamente alla stregoneria); si praticano danze sensuali  scandite da musiche frenetiche; viene designato un albero come punto focale delle danze rituali; vi è l’accensione di fuochi; è spesso presente un calderone; sono connotati da rapporti sessuali;  la presenza delle donne è preponderante rispetto a quella degli uomini.

Alcuni studiosi tendono a far derivare la parola sabba dal culto del dio Sabazio, una divinità originariamente adorata in Tracia e Frigia e venerata nel mondo greco dal V sec. a.C. attraverso un culto a carattere orgiastico e misterico particolarmente diffuso presso le classi inferiori. Nell’arte figurativa è ricorrente l’immagine del banchetto mistico da lui presieduto. Il culto misterico di Sabazio si diffuse poi anche nell’Impero Romano dalla Grecia dove nel 139 a.C. si tentò di bandirlo vanamente, ma soprattutto dalla Siria, dove era identificato dalla comunità ebraica con Sabaoth, il dio biblico degli eserciti, da cui forse la parola “sabba” per indicare il banchetto che si teneva in suo onore.

Il culto aveva forme misteriche esoteriche: i riti d’iniziazione si celebravano di notte, con una finta morte e resurrezione e una simbolica unione sessuale con il dio, rappresentato da un serpente, e di giorno, con una processione e formule rituali. Era  aperto al sincretismo: nella Frigia la figura di Sabazio si fondeva con quella di Attis, tendeva a identificarsi con Dioniso. Per gli adepti era quasi un dio unico che assorbiva tutti gli altri; l’epiteto di σωτήρ, “salvatore”, sottolinea il carattere della religiosità dei fedeli, carica di ansie salvifiche.

   La caccia alle streghe continua a essere un capitolo difficile della storia europea, molti storici pensano che non sia possibile conoscere il punto di vista delle vittime perché i documenti furono scritti dai persecutori. Posizione discutibile. C’è un legame che non si può rompere tra il persecutore e la vittima, e quando il primo afferma il proprio punto di vista, tira dentro anche la seconda. Basta avere la pazienza di seguire il filo esile e intermittente di questa presenza seconda. Perdenti in partenza, per l’enorme disparità di potere, le vittime si difesero con tutti i mezzi che avevano a loro disposizione, con la fuga, con il suicidio, con la sincerità, con la fantasia, con la ragione, con la religione, con il silenzio, con la malattia, mentale, con la resa alla morte. La loro teologia si volle perduta, per fare posto alle credenze religiose dei loro persecutori, dominate dalla figura del demonio, del peccato, della penitenza e della contrizione ma ancora oggi, le ceneri dei roghi viaggiano nel vento, nei piccoli agglomerati urbani di campagne lontane dalla civiltà, nei paesini sperduti sulle montagne, tra i boschi… qualcuno le ha raccolte.

Fonti:

-Graves, R., I Miti Greci, Longanesi, 2009;

-Muraro, L., La Signora del Gioco, La Tartaruga, 2006;

-Maffei F.S., Arte Magica Annichilata, Libri Tre, Google Books;

-Salles C., I bassifondi dell’antichità, Rizzoli, 1985

-Silvestro G., Aureo Tevere, Loffredo editore, 1975;

Enciclopedia Oraziana, Treccani, 1998;

-De Angelis, Il Libro Nero della Caccia alle Streghe, Piemme, 2004.

 

 

 

 

 


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