ONRYO, FANTASMI GIAPPONESI IN ITALIA


ONRYO, FANTASMI GIAPPONESI IN ITALIA
di Claudio Cordella

“Peraltro non si può sfuggire dal sottolinearlo. I feroci onryo sono quasi sempre donne che tornano da “questa parte” per vendicarsi della loro morte ingiusta e solitamente violenta. Il sottotesto sociologico è certo interessante: se in vita la componente femminile è fragile e indifesa, con la morte essa acquista un potere terribile e una crudeltà senza limiti alla quale è difficile sfuggire”. DANILO ARONA e MASSIMO SOUMARÉ, Tra horror japanesque e J-horror: l’evoluzione del terrore nella pelle del Reale, in Onryo, avatar di morte, a cura di DANILO ARONA e MASSIMO SOUMARÉ, Mondadori, Milano 2012, p. 11.

Onryo, avatar di morte. Copertina.

Da diversi anni, sia in televisione che nelle edicole, i prodotti della cultura popolare nipponica contemporanea sono diventati  una presenza famigliare e costante: serie d’animazione a base di robot giganti e fanciulle dai poteri magici, fumetti incentrati sui combattimenti tra personaggi super-umani. All’interno di questa vasta produzione, in misura maggiore o minore, spiccano senz’altro gli elementi provenienti dal ricco folklore nipponico. In effetti il Giappone attuale non ha dimenticato le storie della sua tradizione, spesso incentrate su una complessa genia di spettri e di altri esseri mostruosi. Basti citare a titolo di esempio la fumettista Rumiko Takahashi, molto nota e amata anche nel nostro paese, che ha sempre infarcito le sue tavole, umoristiche o fantastiche che fossero, di riferimenti all’immaginario pluri-secolare della sua terra natale. Tra le creature della tradizione spiccano senz’altro gli onryo, un tipo di spettri appartenenti alla genia degli yurei; fantasmi nati da coloro che sono stati colpiti da una morte tragica e violenta. Il dolore causato da una simile fine lega il defunto al mondo terreno, spingendolo a tormentare i responsabili del suo triste destino. La temibile Sadako del film Ringu (Ring), una spettrale figura femminile dai lunghissimi capelli neri che appare dopo sette giorni per uccidere chiunque abbia osato guardare una videocassetta maledetta, è un ottimo esempio di onryo dei giorni nostri. Le radici di questo personaggio risalgono alla leggenda di Banchō Sarayashiki, cupa ghost story del Seicento giapponese. In essa si narra di come una serva di nome Okiku venga ingiustamente accusata da un samurai, il cui nome cambia da una versione all’altra, di una colpa che non ha commesso. Il delitto in questione sarebbe stato il furto di un piatto prezioso, altre tradizioni invece, descrivendo Okiku come molto bella, dicono che il guerriero fosse infuriato per esser stato rifiutato dalla giovane. Fatto sta che l’uomo uccide la poveretta e ne getta il corpo in un pozzo, a quel punto lo spirito dell’innocente, non potendo trovar la pace, torna dall’aldilà per cercare vendetta. Okiku avrebbe una sua reincarnazione, un avatar per così dire, proprio nella Sadako dell’horror contemporaneo; d’altra parte alcuni elementi comuni, come il pozzo-tomba e la folta chioma, sono più che evidenti. Costei è apparsa per la prima volta nelle librerie del Giappone nel lontano ’91 nel romanzo Ringu (Ring) di Koji Suzuki, il quale diede poi alle stampe due seguiti: Rasen (Spiral) del ’95 e Rūpu (Loop) del ’98. Alla trilogia dei romanzi si va poi ad aggiungere nel 1999 l’antologia di racconti Bāsudei (Birthday).

La stessa filmografia legata all’universo di Ring è assai nutrita, comprendendo una prima pellicola nel ’98 per la regia di Hideo Nakata, la quale ebbe poi due sequel e un prequel, un remake statunitense che generò a sua volta dei seguiti e addirittura un film coreano (The Ring Virus). A tale elenco dobbiamo aggiungere le produzioni televisive: il film per la TV Ringu: Kanzen-ban (1995), prodotto prima della pellicola di Nakata, e il telefilm Ringu: Saishuu-shō (1999). Si consideri poi che romanzi e film son stati affiancati da apposite opere a fumetti; tra questi segnaliamo l’adattamento del ’99 di Ring, dove ritroviamo in qualità di sceneggiatore Hiroshi Takahashi, il medesimo del primo film, e ai disegni Misao Inagaki. Abbiamo quindi a che fare con una mole di materiale non indifferente, che in buona parte è stata messa a disposizione del pubblico italiano. Dunque, grazie a Ring, l’appassionato nostrano di horror e di fantastico ha potuto familiarizzarsi con la tetra figura dell’onryo. Oggi su Urania, storica collana della Mondadori, il lettore nostrano potrà conoscere e temere ancor di più questi esseri ultraterreni grazie all’antologia Onryo, avatar di morte. I due curatori di questa raccolta, Danilo Arona (classe ’50, saggista e autore di romanzi horror come Cronache di Bassavilla, Finis Terrae e L’estate di Montebuio), e Massimo Soumaré (nato nel ’68, docente di lingua giapponese, traduttore, curatore editoriale e di mostre d’arte), regalano ai loro lettori un vero gioiellino, una rassegna di novelle incentrate proprio sulle spettrali creature del kaidan, la tipica ghost story del Sol Levante. In quest’opera autori “made in Japan”, tra cui la romanziera Masako Bando, iniziatrice del moderno horror giapponese (horror japanesque) e Sakyo Komatsu (pseudonimo di Minoru Komatsu), uno dei più affermati scrittori di sci-fi dell’arcipelago nipponico, si alternano, in un sapiente gioco di squadra, con i racconti di autori nostrani. Tra di essi Stefano Di Marino, un veterano della “narrativa di genere” italiana, qui presente con il suo Il cacciatore di figli posseduti. Concludiamo ricordando che i curatori hanno firmato a quattro mani un’introduzione a Onryo, una dettagliata analisi sulla letteratura e sul cinema orrifici giapponesi, oltre due racconti presenti in quest’antologia: Barocco kaidan di Suomaré e Vale va bene di Arona.

Intervista Massimo Soumaré

Com’è nata l’idea di un’antologia dedicata alla figura dello spettro della tradizione folkloristica giapponese?
Non è stata mia. Si tratta di un’idea avuta da Sergio Altieri, allora direttore delle collane da edicola Mondadori, e dallo scrittore Danilo Arona. Nel progetto iniziale doveva uscire nella defunta collana Epix, concepita come un contenitore che permettesse di pubblicare letteratura di genere sperimentale. Arona era a conoscenza del fatto che avevo già curato parecchie antologie con racconti di autori giapponesi, ha quindi ritenuto opportuno contattarmi per propormi la curatela e la traduzione del libro. Inoltre Altieri ha voluto che nel volume fosse presente anche una mia storia.

Quali sono le differenze e le similarità tra le ghost-stories nipponiche e quelle occidentali?
Questa è una domanda difficile. In sintesi, credo che la differenza basilare vada cercata nel diverso background culturale. Gli scrittori occidentali sono generalmente cresciuti nella tradizione cattolica, perciò nel loro approccio al tema sostanzialmente considerano gli spettri come entità sofferenti o come spiriti dannosi. In Giappone dove la religione autoctona è lo shintoismo, una forma di animismo, si ritiene che non solo nelle creature viventi ma anche negli oggetti esista uno spirito. Questo origina una visione dei fantasmi molto più articolata e complessa che si riflette anche nelle opere letterarie. Le ghost-stories occidentali sembrano più basate sulla lotta tra i vivi e i morti, mentre quelle nipponiche, seppure possano mostrare un simile contrasto portato agli eccessi, frequentemente sono piuttosto incentrate su un dialogo tra gli appartenenti a diverse sfere d’esistenza. Per le similitudini, bisogna ricordare che le storie di fantasmi inglesi e americane sono state tradotte in giapponese subito dopo l’apertura forzata all’Occidente che ha condotto alla Restaurazione Meiji del 1868 influenzando indubbiamente gli autori del Sol Levante. Se poi consideriamo che proprio un occidentale, Lafcadio Hearn (1850-1904) noto anche con il nome di Koizumi Yakumo, non solo ha contribuito con un processo inverso a far conoscere all’estero le leggende e il folklore giapponesi ma ha rilanciato nello stesso Giappone il genere in un periodo che non godeva di molta popolarità, è naturale trovare elementi affini tra le ghost stories occidentali e quelle nipponiche.

Perché i fantasmi del Giappone sono classificati in diverse categorie?
I fantasmi in Giappone hanno una tradizione letteraria ormai millenaria e nel Periodo Edo (1603-1868) le storie che li riguardano si sono ampiamente diffuse grazie allo sviluppo della letteratura popolare con opere come Nansô Satomi Hakkenden (La storia degli otto cani dei Satomi di Nansô) di Kyokutei Bakin (1767-1848), in cui una principessa defunta interviene in varie occasioni ad aiutare i suoi figli, e alle opere del teatro kabuki che nel suo repertorio include diversi drammi molto famosi in cui compaiono spettri come, ad esempio, lo spettacolo del 1851 Higashiyama sakura sôshi (La storia dei ciliegi di Higashiyama) con il fantasma di Asakura Tôgo. I giapponesi, storicamente, hanno sempre avuto una grande cura e passione nello studio enciclopedico nei vari campi del sapere e neppure i fantasmi sono sfuggiti a questa regola. Nel XX secolo gli studi su spiriti e yôkai (esseri sovrannaturali) sono stati ulteriormente portati avanti da ottimi ricercatori, così che la classificazione si è adeguata a criteri sempre più accademici. D’altra parte, c’è però da considerare che queste classificazioni sono per lo più applicate da critici e studiosi, mentre nei racconti gli scrittori tendono spesso a restare maggiormente sul generico. Quest’anno dovrebbe uscire un mio saggio incluso nel volume relativo al Secondo Convegno di studi sul Folklore e il Fantastico tenutosi a Genova nel 2010 in cui tratto dettagliatamente anche il tema della classificazione dei fantasmi e dei mostri giapponesi.

Tu e Danilo Arona come vi siete suddivisi il lavoro?
Danilo Arona si è occupato di coordinare gli autori italiani e poi di dare una prima uniformità al volume in fase di editing. Io invece ho curato tutta la fase dei contatti con gli scrittori giapponesi, ho scelto i racconti e li ho tradotti. La prefazione l’abbiamo scritta insieme a quattro mani.

Quali difficoltà hai dovuto affrontare nel tradurre in italiano i racconti fanta-horror degli autori giapponesi?
Le stesse difficoltà incontrate nel tradurre altre opere di autori giapponesi. Né più né meno. Comunque il racconto più complicato da rendere in italiano, visto lo stile molto complesso, è stato La madre del kudan di Sakyô Komatsu pubblicato per la prima volta nel 1968. In quel periodo gli scrittori giapponesi utilizzavano uno stile letterario più colto, ma al contempo maggiormente affascinante, di quello attuale e quindi più difficile da tradurre.

Perché alternare nell’antologia le novelle degli scrittori del Sol Levante con opere di firme nostrane?
Direi che ci sono molteplici ragioni. Includere in un unico volume, alternandole, storie di autori giapponesi e italiani sicuramente riesce a creare qualcosa d’innovativo e originale capace di meravigliare e incuriosire i lettori grazie al continuo cambio di registri. Gli scrittori italiani sono stati entusiasti di poter pubblicare dei racconti insieme ai giapponesi (ciò fa riflettere sull’interesse e l’influenza che la cultura del Sol Levante ha acquisito anche tra gli autori del nostro paese) e il confronto ha dato risultati positivi. Inoltre, fatto non trascurabile, ha permesso agli scrittori italiani di tornare a scrivere storie di fantasmi. Normalmente si pensa che sia un genere tipicamente americano o inglese, ma una volta lo scrittore Masahiko Inoue mi ha fatto notare come persino Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi possa essere considerato una ghost-story. Il grillo parlante, infatti, è uno spirito. Anche noi abbiamo una nostra tradizione di storie di spettri che, oltretutto, ha una sua particolarità distinta da quella dei paesi di area anglosassone e che ritengo valga la pena riscoprire e attualizzare.

Secondo te anime e manga, i cartoni animati e i fumetti giapponesi, contribuiscono alla conoscenza del Giappone all’estero o ne danno al contrario un’idea falsata?
Il Giappone dalla seconda metà dell’Ottocento ha avuto una grossa influenza sull’Occidente come evidenziato dall’Esposizione universale di Parigi del 1867. Basta solo pensare ai quadri degli scrittori impressionisti. Successivamente, la cultura giapponese è sempre stata popolare tra le classi alte e gli intellettuali europei e americani, però questo, se andiamo a osservare la situazione nel particolare, era un interesse limitato a un numero ristretto di persone appartenenti ai ceti ricchi oppure agli artisti e agli studiosi. Prima gli anime e poi i manga, frutto di una cultura popolare, sono stati i veri elementi che hanno contribuito a fare conoscere il paese a tutto il mondo. La loro matrice pop ha fatto in modo di presentare il Giappone in maniera assai più diffusa e ampia rispetto a quanto era avvenuto in passato. Se compariamo la conoscenza che aveva un italiano medio di trent’anni fa sul Giappone a quella che ha un italiano di oggi, la differenza è considerevole. Vero è che molte conoscenze sono falsate. Anime e manga descrivono bene certi ambienti e situazioni della vita nel Sol Levante, ma spesso sono idealizzati e non trattano i problemi reali. Non bisogna prendere tutto come oro colato. Facciamo un esempio. Ci sono molti fumetti e cartoni animati sulle scuole con protagonisti professori straordinari. Ma ciò è una reazione al fatto che tali insegnanti praticamente non esistono. Il mondo scolastico giapponese ha parecchie problematiche piccole e grandi, tra cui un bullismo molto pesante presente ormai da diversi decenni. Le divise femminili alla marinaretta sembrano graziose, ma si passa da quella invernale a quella estiva a date fisse indipendentemente dal clima, per cui capita di vedere delle quattordicenni che tremano di freddo perché, nonostante debbano indossare l’uniforme estiva, il tempo è ancora molto rigido.

In particolare che cosa ne pensi di quei manga e di quegli anime, horror e non solo, incentrati sulle creature sovrannaturali e sulle leggende dell’immaginario tradizionale nipponico?
Ovviamente m’interessano. Dal punto di vista narrativo alcuni sono prodotti veramente molto validi, altri meno. Inoltre varia parecchio il modo in cui sono trattate le creature sovrannaturali e le antiche leggende. In certi casi gli elementi originali sono minimi, mentre in altri manga e anime c’è un grosso lavoro di ricerca, come nelle opere di Shigeru Mizuki. Pertanto è difficile esprimere un parere generale, sono invece da valutare singolarmente. Comunque, combinazione, ho affrontato l’argomento proprio in Volpi magiche e spiriti inquieti nell’età di internet: influenza della narrativa fantastica classica e del folklore tradizionale giapponesi sui mezzi di comunicazione di massa contemporanei, «Porti di Magnin» n. 73, Porti di Magnin, Mondovì, pp. 94-98, un saggio uscito nel 2011.

Intervista a Danilo Arona

Secondo te esiste un tipo di paura che sia universale, capace di oltrepassare i popoli e le culture? In particolare giapponesi e italiani si terrorizzano davanti alle stesse cose oppure no?
In linea generale sì. Più o meno dappertutto si riscontrano le stesse paure nei confronti dei morti, dei babau e dei mostri della notte. Ho approfondito negli ultimi tempi, per motivazioni che hanno a che fare con la mia produzione letteraria, lo studio di certo folklore della Patagonia, dell’isola di Terranova e degli indiani pellerossa Kachina. Ebbene, per più di un verso, sono culture speculari, nonostante la distanza reciproca. C’è una figura che è una sorta di orchessa che se ne va in giro di notte con una gerla sulla schiena dove infilare i bambini cattivi che è presente, e molto simile, in tutti e tre i casi. E questo ci dice molto. In senso junghiano trattasi di mitologemi, modelli mitici onnipresenti. Poi è ovvio che dal generale al particolare possiamo imbatterci in numerose varianti. E tra queste varianti ci sta l’atteggiamento, per capirci, che ogni cultura esprime di fronte all’ignoto e alla morte. Se in linea di massima i mitologemi coincidono tanto in Italia che in Giappone, è proprio l’atteggiamento culturale che fa la differenza. Per semplificare alla grandissima, diciamo che in Giappone esiste una sorta di accettazione ben più serena nei confronti del mistero della morte e di quel che accade dopo, così che, a patto che il trapasso sia avvenuto in circostanze “normali”, la convivenza con un fantasma è quasi un fatto naturale. Se si tratta di un onryo, è noto, sono grane. In Italia, al di là della diversità antropologica, l’atteggiamento in genere è bivalente: da un lato ai fantasmi non si crede affatto, rifugiandosi in una specie di solare razionalità che vorrebbe essere laica ma non lo è affatto. Ad esempio, una sera a un talk show televisivo della RAI si è riusciti a far convivere accuse di “ignoranza” per chi crede alle manifestazioni medianiche con Padre Amorth presente dall’altra parte a sostenere l’esistenza fisica del diavolo. D’altro canto fantasmi e revenant occupano grossi spazi nei tanti racconti del ricchissimo, e altrettanto frammentato, folklore regionale. Due modi, diversi ma complementari, di “isolare” l’argomento dalla cultura di massa. E’ per questo, forse, che in Giappone i fantasmi possono invadere, senza tormentoni accademici, la cosiddetta letteratura alta. Qui invece uno scrittore che si azzarda a cimentarsi con l’argomento tende a essere subito subito “ingabbiato” nel genere, in senso deteriore. Per fortuna però si scorgono ottimi segnali anche nel mainstream nostrano: Avoledo, Veronesi, Carabba, etc.

Quanto influiscono la storia e le credenze religiose di un popolo nel tipo di letteratura fantastica che produce? Non so percentualizzare. Ma la storia e la religione sono sempre in sottotraccia, anche negativa, nella letteratura fantastica di ogni paese. In Giappone lo shintoismo pesa in positivo, dato che ammette la presenza dello spirito non solo nelle persone, ma persino nelle cose. Qui da noi al contrario, perché la religione cattolica condanna ancora le manifestazioni  spiritiche, da un lato attribuendole al diavolo o, più illuministicamente, giudicandole prive di ogni fondamento (esistono diverse scuole di pensiero sull’argomento). Che la storia c’entri, va da sé. Quel che dovrebbe c’entrare, e che invece è totalmente ignorata, è la “geografia” delle haunted house. In Italia queste ultime sono un mare magnum, alcune di sicuro di grande interesse parascientifico. Eppure la “caccia alle streghe” pseudo-intellettuale non fa uscire il tema allo scoperto. Tema che può avere soltanto sfogo attraverso la sana letteratura horror, praticata dai giovani, che spesso quel serbatoio ricco e interessante va a sfruttare. Uno fra tutti, il mio amico Eduardo Vitolo.

Qual è secondo te il romanzo italiano dell’orrore più spaventoso di tutti i tempi, e qual è invece quello giapponese?
Premesso che io mi spavento affatto avendo tra le mani un libro “spaventoso”, ma provo un sottile e invasivo piacere intellettuale, permettimi di non citare alcun libro italiano, perché li amo tutti alla stessa maniera (e non sta bene metterne uno solo sul podio). Libri giapponesi non ne ho letti tanti, perché, a differenza di Massimo, non sono in grado di leggere in lingua originale e mi devo accontentare di quel poco che esce in Italia. Comunque assegnerei la palma alla raccolta di Suzuki Dark Water, tutti racconti basati sul rapporto tra l’uomo e l’acqua. Molto suggestivo. Poi, se pensiamo allo tsunami, profetico è dir poco.

Negli ultimi vent’anni, nel cinema e nella televisione, è cambiato il modo di raccontare il soprannaturale?
Mi pare che cambi all’incirca di decennio in decennio. Ed è ovvio che occorre scindere, linguisticamente parlando, cinema e televisione. A proposito di quest’ultima, soprattutto per i prodotti seriali che arrivano dall’estero, USA al 90%, siamo a constatare un paradosso: la televisione che scimmiotta il cinema, ma che in qualche modo lo supera sul piano dell’inventiva, del ritmo e della qualità (vedi prodotti come The Walking Dead o American Horror Story). Come dire, il cinema che si trasferisce nel medium televisivo, rinunciando anche a certi storici stilemi propri del video. Ma in ambedue i casi non bisogna dimenticare l’ingresso a gamba tesa delle tecnologie, del computer graphic, del morphing e della tecniche mockumentary. Così che ci troviamo a maneggiare delle ottime “contaminazioni” ascrivibili all’uno o all’altro medium e fruibili con modalità diverse a seconda del fatto di “dove” sono consumate. I vari Paranormal Activity non sono affatto la stessa cosa se li vedi al cinema o alla TV e questo senza entrare nel merito, ammesso che quest’ultimo ci sia. A parere mio, ma io sono pure un “vecchio” che guarda horror film da più di cinquant’anni, prima della svolta linguistica avvenuta negli anni Ottanta (Poltergeist di Tobe Hooper e Steven Spielberg), le ghost-stories al cinema funzionavano soprattutto in virtù dell’assenza degli spettri, vissuta per chi si sintonizzava con il film, come una presenza totalizzante e opprimente. Uno dei miei traumi adolescenziali, che cito spesso, s’intitola Suspense di Jack Clayton, all’origine The Innocents tratto da Giro di vite di James. Avevo 12 o 13 anni e credo che me la feci sotto, fuor di metafora. Non si vede quasi nulla, non ci sono quasi effetti speciali, è tutto un gioco che si trasferisce dalla mente dei protagonisti a quella degli spettatori. Oggi, se mi fanno “vedere” un fantasma, un po’ m’incazzo, dico la verità. E per questo che, tutto sommato, i “giochini” alla Paranormal Activity, al di troppa presunzione linguistica (che finge di essere sciatta) potrebbero avere anche un loro perché. E da qui tentare di capire perché esistano generazioni di spettatori che davanti a quei quei film si addormentano e altre che si spaventano, ma sul serio.

Esiste un anime giapponese, film cinematografico o serie televisiva, che indicheresti come esempio di horror japanesque e di cui consiglieresti la visione?
Soprattutto alcuni manga usciti anche in Italia: Skyhigh e Alive di Tsutomu Takahashi, l’incommensurabile Occhi dietro di Shusuke Michio e Nokuto Koike e (perché no?) la versione manga di Ring a opera di Misao Inagaki e Iroshi Takahashi, che riesce a stravolgere felicemente il testo di Suzuki. Per quel che riguarda la serie TV mi sento di consigliare alla grande Ju-On – The Series, sempre a firma di Takashi Shimizu, ben più efficace delle trasposizioni filmiche. Invece per il cinema, il mio cuore batte ancora per il supremo Kairo di Kiyoshi Kurosawa, un assoluto capolavoro stuprato da un demenziale remake americano sponsorizzato da Wes Craven.

Come possono conciliarsi le storie di fantasmi con un presente caratterizzato da internet, satelliti orbitanti e cellulari?
Beh, forse ce l’ha proprio insegnato il J-Horror, che è il prolungamento cinematografico dell’horror japanesque. C’è uno spettro, terribile, incistato nella storia giapponese. E’ quello della mutagenesi, innestato dalle bombe atomiche di Hiroshima e Nagaski, che estende il concetto di obake (con il quale si allude al soprannaturale, ma anche alla “trasformazione”) al metallo, al duralluminio e ai pixel; in una parola, a quella fisicità contemporanea, che dovrebbe rappresentare la faccia neutra e rassicurante della tecnologia. Ma che rassicurante proprio non è. E’ un’intuizione che circolava già da tempo nelle vene del fantastico, complice anche il movimento cyberpunk e quella bibbia filmica di Cronenberg che si chiamava Videodrome. Ma Suzuki e i suoi proseliti hanno certo avuto il merito di fondere materia e non-materia, metallo e spettri, nei gadget di consumo quotidiano: televisori, cellulari, computer. E la percezione del reale ne esce “infedele”, come insegnano i vari The Eye. La Realtà che muta nel suo stesso fantasma.

In Giappone la distinzione tra la letteratura di genere (entateinmento bungaku) e alta (jun bungaku) non è marcata come da noi, secondo te perché?
Mah, la butto lì, anche se meglio di me potrebbe dire Massimo Soumaré che ben conosce le caratteristiche del mercato interno giapponese. Ma perché hanno autori come Haruki Murakami, Taichi Yamada o lo stesso Edogawa Ranpo, un classico defunto degli anni Sessanta riproposto proprio da Urania poco tempo fa: scrittori la cui arte eccelsa nessuno, laggiù, si sognerebbe di confinare o, peggio, di “battezzare”. Dimostrazioni che i generi spesso sono convenzioni mentali entro le quali mettersi in trappola. E che i generi possono essere contenuti, e dissolversi, nella letteratura tout court. Per paradosso, al contrario, si può richiamare quel che disse molti anni fa Laura Grimaldi a proposito del noir, definendolo il romanzo per eccellenza dei nostri tempi in quanto “dimensione della mente e dello spirito”, così da poter classificare come noir anche dei classici della letteratura mainstream di ieri e di oggi. E’ un approccio tutt’altro che estremo e che ci permette di guardare con molto sospetto a queste “false” categorie narrative che neanche più i librai sanno come maneggiare. Potrà accadere anche in Italia che le barriere discriminatorie tra i generi letterari cadano, o quantomeno diventino meno rigide? E’ un augurio. Io sono tra coloro che lottano in prima perché questo accadere. Ma temo di non sopravvivere così a lungo. Però fino all’ultimo tenterò di divertirmi.


Leave a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *