Settimana Lupo Mannaro – Lupus in Fabula – Saggio


Lupus in fabula

Di Tatiana Martino

Analisi mitopoietica sulla nascita dei racconti sui lupi mannari

Superiorstabat lupus

  “Vengono chiamati  “Lupi Mannari”, nei testi di Stregoneria, quegli uomini e quelle donne che sono stati trasformati, o si trasformano, in lupi: ovvero quelli che si travestono per  fingere tale trasformazione, e talvolta credono  –per un’abominevole forma di follia- d’essersi effettivamente cangiati in lupi, e di tali belve prendono le abitudini e i costumi.”

   Così si esprime Jacques Collin de Plancy nel Dictionnaire Infernal, amplissima silloge – un migliaio di fitte pagine- di documenti, biografie, informazioni riguardanti la Magia, la Stregoneria  e l’Occulto,-  pubblicato nel 1818 e successivamente ristampato più volte con diversi ampliamenti.  Dal Dictionnaire si evince che per gli studiosi illuminati della prima metà dell’Ottocento, il Lupo Mannaro, sarebbe solo una messa in scena ad opera di “malfattori che volessero compiere così una qualsivoglia soperchieria”. Già sotto Luigi XIV  nella seconda metà del Seicento, come afferma lo stesso de Plancy, si cominciò a dubitarne se non fosse che l’Imperatore Sigismondo fece discutere in sua presenza, da un conclave di sapienti la “questione dei lupi mannari” ma –ci dispiace per lo scettico Collin- i dotti al soldo di Sigismondo stabilirono unanimemente e senza ombra di dubbio che la mostruosa metamorfosi era un fatto accertato e costante. Il buon Jacques avrebbe dovuto tener conto, da bravo ricercatore, del fatto che è difficile sbarazzarsi di un archetipo così tanto ancestralmente radicato nel nostro inconscio dalla notte dei tempi. Basti pensare che il lupo, animale d’origine paleoartica, migrò con l’uomo dall’Eurasia all’America del Nord e seguì le stirpi indo-arie nella loro diffusione in Europa e nel sub-continente indiano stabilendo così un legame indissolubile con noi, bipedi spelacchiati.

   Legame che si concretizza nell’assunzione del lupo come totem nelle culture sciamaniche per le quali era possibile assumere le caratteristiche del proprio totem per via imitativa, vale a dire vestendone la “pelle” e  lasciandosi invasare dallo “spirito della bestia”.  Sarebbe limitativo sostenere che la scelta del lupo come totem  riguarda esclusivamente il fatto che, in un’epoca in cui la cultura dominante era ancora quella della caccia, il lupo fosse il competitore per eccellenza all’interno della medesima nicchia ecologica. In realtà si deve tenere conto  di altri aspetti archetipici del lupo ovvero quelli che ne fanno animale ctonio e psicopompo proprio perché ctonio.  Il lupo ha l’abitudine di scavare tane nella terra, come l’orso, cosa ben nota alle popolazioni norrene, per fare un esempio. Da questa abitudine per le già citate popolazioni nasce l’idea che il lupo sia partorito dalla Terra stessa e che -provenendo dal suo ventre- racchiuda in sé tutta Conoscenza della Madre e di conseguenza diventa guida per i defunti verso il ritorno al Grembo della Madre, dunque psicopompo. Teoria questa confermata anche dai ritrovamenti archeologici di urne funerarie dalla testa di lupo presso le popolazioni nomadi primitive. Tutto ciò fa del lupo il totem perfetto: abile procacciatore di cibo, saggio conoscitore dei Misteri della Terra, guida per l’Aldilà. E’ altamente auspicabile, a questo punto e nell’ottica sciamanica, “impossessarsi” delle sue qualità attraverso un rituale di “invasamento” che somiglia in tutto e per tutto a una vera e propria “possessione” ed è così che la vedranno  -in epoche negate alla Ragione- gli inquisitori cattolici.

A confermare, in epoca più tarda, una sopravvivenza totemica di questo genere basti pensare al dio degli inferi greco Ade, vestito di pelli di lupo, o a Erodoto e Plinio (che raccontano che i membri della tribù dei Neuroi, una volta all’anno, assumevano le sembianze di lupi per poi riacquistare quelle umane) ma anche i carmi norreni della Volsunga Saga che ci narrano, per esempio, degli Ulfhedhnir, variante lupesca dei Berserker (invasati dallo spirito dell’orso).

 Et in Arcadia Ego

  Per rintracciare le prime tracce di quelli che saranno i temi portanti della “storia di lupi mannari” dobbiamo fare un salto nel Peloponneso e precisamente in Arcadia.

   L’Arcadia, lungi da essere il locus amenus evocato da Poussin nella sua celebre tela, pare sia stata la madre di tutti i licantropi prima ancora delle ghiacciate terre del Nord.

Tutto accadde per una cena andata male.

Dovete sapere che in concomitanza al Dio degli Ebrei che a sua volta prendeva spunto da quello dei Fenici che aveva copiato dai Sumeri, un altro dio ad avere la mania dei diluvi fu l’infiammabile Zeus, padre degli dei olimpici. Ebbene, il così detto “Diluvio di Deucalione” fu provocato da Zeus per punire “gli empi figli di Licaone, figlio di Pelasgo”.

Licaone civilizzò l’Arcadia e fu il primo a istituire il culto di Zeus Liceo (ovvero “della Lupa”). Pare che Zeus, che aveva il vizio di travestirsi da viandante (come Wotan), in queste vesti si presentasse alla dimora di Licaone. Licaone, subodorando l’inganno, per svelarne le fattezze divine decide di imbandirgli per cena una zuppa fatta con le interiora di uno dei suoi –per alcuni 22, per altri 50 (entrambi numeri legati al lupo)- figli, il giovane Nittimo. Zeus, disgustato, trasforma Licaone e i figli in lupi, distrugge la sua dimora con una folgore e ridona la vita a Nittimo. Non soddisfatto, tornato sull’Olimpo, scatena una grande alluvione che avrebbe dovuto distruggere il genere umano e invece si verificherà un tamtam tale –all’insaputa di Zeus- che i sopravvissuti saranno molti, non solo Deucalione da cui il mito prende il nome.

Tra questi gli abitanti tutti di Parnasso, città fondata da Parnaso –figlio di Poseidone e inventore dell’arte augurale- che furono destati dagli ululati dei lupi e li seguirono fin sulla cima del monte. In onore dei lupi chiamarono poi la loro nuova città Licorea. Alcuni dei Parnasi, ora Licorei, emigrarono successivamente in Arcadia dove fecero rivivere l’antico culto istituito da Licaone e in più adottarono l’usanza di sacrificare un fanciullo a Zeus Liceo e farne una zuppa con le interiora che veniva servita a un gruppo di pastori riuniti nei pressi di un ruscello. Il pastore che mangiava le interiora del fanciullo (assegnate a lui dopo estrazione a  sorte) cominciava a ululare come un lupo, appendeva le sue vesti a una quercia (albero sacro a Zeus) e diventava un licantropo. Per otto anni vagava in branco con i lupi ma se si asteneva dal mangiare carne umana per tutto quel periodo,  poteva  far ritorno al luogo della riunione, attraversare a nuoto il fiume e riprendere le sue vesti.

    La spiegazione evemeristica che concordemente si attribuisce a questo mito, viene solitamente fatta rientrare all’interno dello schema tracciato da J. G. Frazer ne “Il Ramo d’Oro” relativo al rex sacrorum. In pratica l’usanza avrebbe come scopo quello di tener lontani i lupi dalle greggi e dagli uomini (divieto di mangiare carne umana) inviando loro un uomo come re. Il re sacro e il suo successore, sottolinea R. Graves in “Miti Greci” dando manforte a Frazer,  regnavano ciascuno per  otto anni solari (ovvero per metà della c.d. Grande Annata, composta da 100 mesi) e i 50 figli di Licaone (uno per ogni mese dell’anno  sacro) furono probabilmente coloro che partecipavano al pasto a base di carne umana, 22 le famiglie che vantavano la discendenza da Licaone. Lo stesso Pausania, che cita la storia di Licaone per primo, sostiene che in Arcadia vivevano tribù cannibali a riprova della sopravvivenza di queste pratiche arcaiche.

Homo homini lupus

   Da un punto di vista mitopoietico, invece, all’interno del mito qui esposto è possibile rintracciare quasi tutti gli elementi che contribuiranno a comporre la “leggenda” narrativa del Lupo Mannaro.

  Esaminando il mito nel dettaglio si noterà come, gli elementi salienti passati per osmosi attraverso il distorcimento tipico del racconto orale nella “leggenda del Lupo Mannaro” come cause necessarie al verificarsi della trasformazione, siano:

il cannibalismo (l’ingestione volontaria o involontaria di carne umana, il passo successivo sarà farlo diventare “mania”, ovvero “sacra follia” che “invasa” );

la maledizione (sempre nell’ottica di causa/effetto per la violazione del tabù per eccellenza);

la spoliazione/vestizione (ci si sveste dei propri abiti –come nel  rito arcadico successivo al mito- e s’indossa –come per esempio erano soliti gli Ulfhednir- una pelle di lupo (anche se altre fonti più tarde già lontane dalla fase dello sciamanesimo primitivo, nel caso dei “guerrieri-lupo” norreni, parlano di “cintura di pelle umana alta tre dita, ricavata dal cadavere di un assassino”);

la trasformazione in belva (ci piace ricordare che gli “shapeshifter” mutano in diverse forme animali che vanno dal già menzionato orso al toro);

la durata della maledizione (prima otto, poi nove anni. Qui è possibile ravvisare un passaggio da un numero “maschile/solare” a uno “femminile/lunare”);

la redenzione (attraverso l’astensione dalle carni, tipo passaggio iniziatico presente tanto nei “Misteri” greci che nelle forme rituali di iniziazione tribali).

   Procedendo a una veloce ma attenta analisi di questi sei punti si comprenderà il perché della necessa-rietà e della persistenza di ognuno nei racconti successivi.

  Il cannibalismo è il primo gradino verso il processo di disumanizzazione e quindi verso la trasformazione in qualcosa di peggiore di una belva (i civilissimi Romani coniarono il famoso detto “Canis caninam non est”, cane non mangia cane, intuendo profondamente e profeticamente una verità etologica ancora ignota all’epoca). Questa disumanizzazione prevede che ci si “spogli” della pelle umana (gli abiti appesi all’albero sacro ne sarebbero una metafora) per rivestire la pelle dell’animale . Senza l’atto cannibalico che lo allontana dall’umanità e quindi dalla sfera del numinoso “positivo” direbbe M. Luthi,  avremmo l‘invasamento  sciamanico. Ogni popolazione che si consideri non più primitiva ha superato la fase del cannibalismo rituale (endo- ed eso- cannibalismo, ovvero praticato all’interno dei membri di una comunità o quello di “esterni” al gruppo tribale), tanto che questo veniva considerato tabu. Chi commetteva  tabu veniva ostracizzato dalla comunità e così si spiegherebbe lunga durata temporale (otto/nove anni) della maledizione e la possibilità di  redenzione che consiste nell’ essere riammesso nel gruppo una volta espiato il tabu. Il divieto di attraversare corsi d’acqua, richiama il fiume arcade, oltre il quale l’iniziando ai riti di Zeus Linceo era confinato, poi sincretizzato attraverso l’accostamento del simbolismo acqua/purezza/battesimo/rinascita da cui deriva la credenza medievale che gli spiriti maligni (quindi anche i licantropi) non potessero attraversare corsi d’acqua puri, loro che puri non erano.

Mentre la scelta di un oggetto in argento (spada o proiettile che sia) come unica maniera per ucciderlo, non è solo relativo al fatto che gli fossero attribuite proprietà antibatteriche fin dall’antichità ma anche per il fatto di essere metallo associato alla Luna e, per la teoria delle segnature, per la quale semplificando al massimo potremmo dire che “fuoco si combatte con fuoco”, elemento migliore da associarvi.

   Questi fattori spiegherebbero inoltre la diffusione delle leggende sui Lupi Mannari in periodi  che presentano tutti le medesime caratteristiche:

-carestia;

-guerra;

-sopravvivenza in luoghi e situazioni di isolamento (spaziale, nicchia culturale) e/o in situazioni di anarchia.

  Non a caso l’amico di Nicetore, il liberto della Coena Trymalchionis di Petronio, è un soldato (guerra), le tribù  dei Neuri  delle Storie di Erodoto  vivono nella  “più lontana nazione degli Sciti” (isolamento) come anche i “mannari” arcadi (isolamento), vedremo come questi fattori saranno determinanti nella diffusione dei racconti sui lupi mannari in epoca medievale fino ad arrivare a quelli di fine ‘700.

  Alla sedimentazione e all’arricchimento dei “temi portanti” contribuirono in modo determinante i processi a carico delle presunte streghe e dei presunti lupi mannari che si tennero nell’arco di due secoli e che produssero trattati sull’argomento che a loro volta contribuirono a suggestionare l’immaginario collettivo nella creazione del mito.

  Nella Topografia Hibernica, Giraldo di Cambria (1147-1223), racconta di aver somministrato l’Estrema Unzione a una morente licantropa, sotto la cui pelle apparirà una vecchina, a Ossory nell’Ulster  e lo fa senza demonizzarne la figura. Diversamente da un permaloso e presuntuoso San Patrizio che –come è narrato nel “Kongs  Skugsjo” (Specchio dei Re), opera norvegese in prosa del 1250- irritato per il fatto che una tribù locale lo avesse accolto con ululati da lupo chiese al buon Dio di tramutarli in lupi per un periodo di sette anni. Nel primo racconto appare il vello del lupo, nel secondo una maledizione e un arco temporale, ma fin qui il diavolo non ci ha ancora messo la coda a riprova che non fu tanto la paura del lupo in sé quanto la strumentalizzazione che passa per la demonizzazione operata dal cattolicesimo, a creare il mito del licantropo, partendo da una “necessità di conversione” finendo a interessi molto più bassi. Olao Magno, nel XVI secolo, informerà che ci sono più streghe in Livonia e in Norvegia e nei paesi settentrionali di quante ve ne siano sparse per tutto il mondo e illustrerà con dovizia di particolari le invasioni di licantropi in Lituania, Samogizia e Livonia. Qui è chiaro l’accostamento tra due esseri ritenuti sovrannaturali, accomunati dalla capacità di mutarsi in animali (lo stesso Erodoto quando parla dei già citati Neuroi, parla di ars goetia tramite la quale era possibile agli “stregoni”- così recita la glossa alla traduzione medievale- della tribù di tramutarsi in lupi). Questa tendenza alla manipolazione delle fonti partita dal Medioevo, si consoliderà fino a dar prova di essere capace di vera e propria mitopoiesi (cioè creazione di un mito, in questo contesto) partorendo perle come  i Discours de Sorciers di Henry Boguet, in cui si forniscono numerosi esempi di confessioni di streghe che si sarebbero trasformate in lupi, o al De Sortilegis di Petrus Marmorus dove l’autore sostiene di aver assistito al mutamento di uomini in lupi. O ancora Jean Bodin nel Démonomanie de Sorciers si dilunga prolissamente in racconti di processi a lupi mannari, o il rinomatissimo de monologo del X sec., Pierre Delancre che dedica tutto il quarto libro dei suoi Tableau alla licantropia. Fino a un fiorire di trattati che hanno la licantropia come oggetto esclusivo di studio come Dialoghi sulla Licantropia di Claudio, Priore di Laval, o Discorsi della Licantropia e della trasmutazione di uomini in lupi di Jacques Rickius, in cui non solo si ammette ma si afferma con forza l’incontestabilità della realtà della Licantropia.

   A questo punto il gioco è fatto, ed è il gioco della Signora d’Oriente. Tante sono le mulierculae, costrette a confessare sotto tortura di tramutarsi in lupi o di avere il potere (concessogli dal Diavolo) di tramutare in lupi. Lo stesso già citato Boguet nel suo Discours des Sorrciers, per esempio, racconta del processo da lui istruito –il nostro era giudice- ai danni di Francoise Secretain, rea tra le altre cose di essersi tramutata in lupo per mezzo di un unguento.  Ed ecco affacciarsi un altro elemento tratto proprio dalla trattatistica sui processi alle bonae foemine che entrerà di diritto nella leggenda: l’unguento.

  Ora, già Virgilio, nelle Bucoliche (I secolo d.C.), parla di alcune piante che crescono nel Ponto e che avrebbero il potere di trasformare una persona in lupo. Nel XV e XVI secolo, si trovano numerose testimonianze secondo cui questa trasformazione avveniva proprio per mezzo di un unguento. Paulus Aegineta in un trattato del VII seco d.C. descrive la sintomatologia del licantropo (asserendo che “essi sono pallidi, la loro vista è debole, gli occhi sono secchi, la bocca ancor più secca, la salivazione bloccata; sono assetati, hanno le gambe gravemente ferite per le numerose cadute”) in maniera tale da far supporre gli effetti di specie psicoattive della famiglia delle Solanaceae, principalmente belladonna (Atropa belladonna), stramonio (Datura stramonium), giusquiamo (Hyoscyamus albus o Hyoscyamus niger) e mandragola (Mandragora autumnalis o Mandragora officinarum) o più semplicemente a base si segale cornuta, ingrediente anche del c.d. “pane delle streghe”.

  L’impressione sulle coscienze del popolo minuto, suscitata dai processi per stregoneria, fu tale da far nascere florilegi su quanto trapelava dalle sale di tortura al punto che, un assassino seriale come Peter Strumpf –reo confesso di aver ucciso sedici bambini e due donne incinte e di averne mangiato il cuore- non poteva che essere un lupo mannaro, come pure il più famoso Gilles de Rais, signore bretone e condottiero al fianco di Giovanna D’Arco (guarda caso, processata per stregoneria).  I racconti di questi malfattori, come anche quelli di Michel Verdung, Pierre Burgot e Gros-Pierre, riportati da Wierus nel Pseudomonarchia Daemonorum, spesso si arricchivano di particolari forse volti a impressionare i giudici o semplicemente estorti con la tortura, quando non sono vere e proprie “invenzioni” popolari (date dalle leggi della trasmissione orale) o reminiscenze classiche dei compilatori degli atti dei processi o degli stessi autori dei trattati di demonologia.

De Lupina Insania

  La demonizzazione del licantropo avviene dunque quando la cristianità inventa il diavolo. La mitologia demoniaca della storia cristiana si definisce attraverso i Padri Apostolici e gli Apologeti, fino a giungere alle imponenti trattazioni di Tertulliano e  Agostino. “Si ha l’impressione”, scrive A. M. Di Nola ne “Il Diavolo”, “soprattutto per i primi tre secoli, che la mitologia, (…) abbia al di fuori del quadro mitico, precise conseguenze di carattere storico e politico”. Continua Di Nola “(…) questi temi non sono segregati nel campo della speculazione, ma debordano nei comportamenti concreti che la Chiesa assumerà nei secoli successivi e, parallelamente, riflettono le conflittualità nascenti dallo scontro fra la società tardo-antica e il nuovo verbo religioso, in un processo storico che lentamente sostituì alle istituzioni e alla visione politica pagane il potere politico del Cristianesimo”.

   E’ in questo periodo funestato da guerre e carestie, che la paura del lupo diventa psicosi e si lega saldamente all’idea di “patto con il Maligno”, altro punto ricorrente nelle leggende sui licantropi e, a questo punto, il sortilegio stregonesco che ha le sue radici, come abbiamo visto, nel mondo classico assume un posto preminente.

   Ma più realisticamente l’associazione strega/lupo mannaro  potrebbe derivare dalla connessione  dell’elemento del plenilunio con la ciclicità femminile, specificamente con le mestruazioni, rilevando in questo una probabile insinuazione di collegare in modo tendenzioso la mostruosità e l’ambiguità con il mondo femminile, anticamente considerato perverso e mostruoso nella  sua  essenza. E lunare sarà anche il suo carattere quando lo si descriverà come “melanconico”, associato anche a Saturno, ai luoghi oscuri e caratterizzato per una preferenza alla vita notturna, ai luoghi isolati. Persino l’incarnato dell’affetto da licantropia, quando non ha ancora subito la mutazione, sarà pallido “come la luna”.

   La sacralità sciamanica prima e sacerdotale dopo (si pensi ai sacerdoti di Luperco, dio mezzo lupo e mezzo capro, vestiti con pelli di lupo), col tempo, lascia il passo alla “patologizzazione” e infine alla “ demonizzazione”.  Già i romani, considerassero la licantropia un morbo, la c.d. lupina insania appunto.  Si passa cioè dal lupus omenarius ( e non hominarius, come pure vorrebbero autorevoli dizionari etimologici ormai datati), “lupo per voto” al lupus mania rum, letteralmente lupo della Manìa  (la dea della follia sacra) che invaserebbe quegli uomini che non osservano i riti, sconvolgendone la mente. In Grecia, per esempio, esisteva una città Licopodi in cui venivano condotti gli affetti da licantropia per esser sanati dal morbo.

  Eppure Erodoto, Varrone, Plinio, Pomponio Mela , Pausania, Platone e altri, ancora guardano a questo “phainòmenon”, ossia “qualsivoglia effetto osservato nei corpi” con curiosità e quasi con benevolenza  se non compassione , al più l’intento di queste storie fantastiche era essere di ammonimento contro l’antropofagia.

    Ancora nel II sec. D. C. ancora il famoso medico ellenico  Galeno può definirla –nel trattato “Peri Likanqropia”, di cui si trovano passi tradotti e commentati nella Ars Medica di D.A. D’Altomare nel 1558- come una sorta di “melanconia cerebrale” che colpisce gli uomini (non le donne) a febbraio (mese in cui i sacerdoti di Luperco, travestiti da Lupi correvano per le strade per i riti dei Lupercalia, prova di come gli elementi sacrali sopravvivano nel “racconto” anche colto, perdendo la loro valenza originaria). Così anche Marcello di Sida, medico del III secolo, Oribasio, del IV secolo (Synopseos ad Eustathium filium lib.novem, nel cap.VIII: De lycanthropia quum homines luporum naturam imitantur),  Ezio di Amida, del VI secolo (Contractae ex veteribus medicinae tetrabiblos, nel cap.II: De insania lupina aut canina appellata, ex Marcello), Paolo di Egina, del VII secolo (De re medica, nel cap. III: De Licaone, aut lycanthropia), Attuario, del XIII secolo (Medicus, sive De metodo medendi libri sex, nel cap. I: De cerebri dorsique medullae affectibus), tutti cercano di dare una spiegazione psicopatologica del fenomeno licantropico.

    A questo punto potremmo credere che la “psicosi da lupo” e la “paura del diavolo” che hanno portato alla nascita della leggenda del Licantropo, siano rientrate ma dovremmo ricrederci presto perché sebbene quello che ci ha portati fin qui è stato un processo lento e certosino, passato  attraverso la strumentalizzazione dei racconti dei classici e della storia antica fin qui citata, servendosi del sincretismo e della paura, allo stesso modo di come si è servito di carestie e guerre e che è approdato a picchi massimi di persecuzione nel Cinquecento, ancora all’inizio dell’Ottocento non vi era villaggio che non avesse i suoi lupi mannari, che fossero persone malviste o creduti reali. Gli elementi narrativi ci sono ormai tutti e vantano una genealogia di tutto rispetto con fonti rinomatissime.

   Ma soprattutto, a questo punto, che crediate nei lupi mannari oppure no, la leggenda ulula ancora nelle notti di luna piena e dopo la lettura di questo breve saggio, avete tutti gli ingredienti  per creare la vostra.

Fonti:

– Luthi M., 1996, La fiaba popolare europea. Forma e natura, Mursia, Azzate, Varese

– Graves R., 2009, I Miti Greci, Longanesi & Co. Trebaseleghe, Padova

-di Nola A.M., 1994, Il Diavolo, Newton Compton, Roma

-di Nola A.M, 1970, Enciclopedia delle Religioni, vol., I coll. 395-407, Vallecchi, Firenze

-Pavolini P.E., 1937, Il lupo mannaro come motivo letterario, in Lares, 8, 3-13 (documento ebook)

– Toro G. 2005, Sotto tutte le brume sopra tutti i rovi. Stregoneria e farmacologia degli unguenti, Nautilus, Torino

-Frazer J.G., 1990, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Bollati Boringhieri, Torino

-AA.VV., Il Canzoniere Eddico, 2004,  a.c. Scardigli P., Garzanti

-Di Cambria G., Agli estremi confini d’Occidente. Descrizione dell’Irlanda di Giraldo Cambriense, 2002, UTET

 

 

 

 

 

 


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