Il viaggio – L’epopea nella storia


Il viaggio. L’epopea nella storia.

A cura di Maurizio Vicedomini

Mio padre possedeva un modesto fondo nella contea di Nottingham, e io sono il terzo di cinque figli. All’età di anni quattordici egli m’inviò al Collegio Emanuele di Cambridge, ove rimasi per tre anni, dedicandomi strettamente agli studi: ma essendo il costo della retta troppo oneroso per le nostre povere sostanze (sebbene vivessi piuttosto magramente), fui destinato quale apprendista presso il dottor Giacomo Bates, eminente chirurgo di Londra, col quale rimasi per anni quattro; e inviandomi talora mio padre piccole somme di danaro, le investii per apprendere l’arte di navigare e altre cognizioni matematiche, utili a chi voglia darsi ai viaggi: come sempre ritenni sarebbe stata un giorno la mia sorte. Lasciato il dottor Bates, me ne tornai alla casa paterna; ove, con l’aiuto di mio padre e di mio zio Giovanni e d’altri parenti, raccolsi la somma di quaranta sterline e una promessa di trenta sterline annue per mantenermi a Leida: ivi studiai la medicina per due anni e sette mesi, ben sapendo che ciò sarebbe stato utile nei lunghi viaggi.

Jonathan SwiftI Viaggi di Gulliver

In quasi tutte le storie che ricordiamo, dalle fiabe ai grandi romanzi avventurosi, ai film, ai fumetti, la tematica del viaggio ricopre un ruolo fondamentale sia dal punto di vista della trama, sia da quello allegorico e morale. Potremmo forse dire che è il cliché più grande e usato di tutta la letteratura mondiale, e non staremmo esagerando.

Certo, il viaggio è sinonimo di ostacoli, di problemi da superare, prima di raggiungere la meta finale e con essa la conclusione. Eppure c’è molto più di questo: l’allegoria affonda le sue radici nel cambiamento, in ciò che l’uomo è costretto ad affrontare o osservare giorno dopo giorno. E non è un caso che questo tema sia così usato: l’immedesimazione, quando la scrittura lo consente, raggiunge subito il lettore, che di certo avrà affrontato una situazione – in allegoria – molto simile.

Il viaggio è il tema letterario più vecchio del mondo. Non per modo di dire, ma per reale riscontro nella letteratura mondiale. Il primo poema epico della storia dell’umanità, L’Epopea di Gilgamesh, narra un viaggio.

La dea Ishtar, rifiutata da Gilgamesh, fa ammalare e morire Enkidu, amico del re. L’eroe, in preda a un terribile dolore, decide di partire per un lungo viaggio, alla ricerca dell’immortalità e della saggezza. Il suo viaggio lo porta oltre i confini del mondo conosciuto, oltre il Mare della Morte, e infine negli abissi dell’oceano. Egli non riesce a portare indietro ciò che trova, il fiore dell’immortalità, ma l’Epopea lo fa tornare a casa.

Cos’era, dunque, il viaggio per Gilgamesh? Il cambiamento e la maturità. Il re che torna dal suo popolo non è lo stesso che l’aveva abbandonato tempo prima. È un Gilgamesh più maturo, saggio, che ha qualcosa da raccontare. E infatti il viaggio diventa esperienza da condividere; allegoricamente l’uomo che insegna al ragazzino la vita.

Ma non è solo nei poemi epici che il viaggio assume connotazione di maturazione. Cambiando del tutto genere – e facendo un salto di diversi millenni – ritroviamo il viaggio nella Commedia dantesca. Opera ben più vicina a noi per fama e tradizione, è un esempio più ovvio dell’allegoria del viaggio; qui, in verità, assume un doppio significato: allegorico, seguendo la scalata al paradiso al passo della maturazione spirituale del poeta-protagonista, e didattico, mostrando le pene dell’inferno, la purificazione del purgatorio e la beatitudine dei cieli paradisiaci.

È dunque chiaro che il viaggiatore tornerà sempre cambiato, se tornerà. I sentieri affrontati sono sempre differenti e mettono alla prova la mente, più che il fisico. L’uomo che affronta battaglie non sarà tormentato dalle cicatrici ricevute, ma dalle morti inflitte e subite. Ed è proprio questo il punto cardine della tematica: il cambiamento psicologico del protagonista. Non era così chiaro nella letteratura pre-romantica, e sebbene ci siano esempi illustri anche nel passato, la nuova concezione prende piede nel XVIII secolo, appena mezzo secolo prima che il romanticismo prendesse piede. Autore di ciò è Jonathan Swift, autore de I Viaggi di Gulliver citati nell’intestazione. Quest’opera – spesso sottovalutata e giudicata per bambini – offre al lettore quattro viaggi: il primo a Lilliput, il più famoso, dove Gulliver è come un gigante. Il secondo è a Brobdignag, e qui la situazione è invertita, con il chirurgo viaggiatore ridotto a un animaletto da collezione da veri giganti. Il terzo viaggio offre più tappe, ma mostra con gli occhi del protagonista scienziati e studiosi abilissimi e di grande fama, che tuttavia non sanno come applicare le proprie nozioni ai fini pratici. Ultimo viaggio, spesso il meno ricordato, è in una terra abitata dagli Houyhnhnms, cavalli intelligenti, e dagli Yahoos, bipedi molto simili agli uomini ma selvaggi. È in quest’ultimo viaggio che Gulliver percepisce il vero cambiamento.

Non bisogna dimenticare che I Viaggi di Gulliver è un’opera che critica la società del tempo, e queste critiche sono facilmente visibili anche nel riassunto fatto poche righe più in alto. Nel criticare, tuttavia, Swift usa il viaggio come allegoria del mondo. Ciò che vede il protagonista è ciò che c’è di marcio nel mondo e che spesso passa inosservato. La critica più forte è infatti quella del quarto viaggio. Nel ritorno a casa, infatti, Gulliver sentirà un profondo disprezzo verso l’umanità, preferendo la compagnia dei cavalli e, in generale, degli animali.

Venendo al secolo appena concluso, e alla letteratura di genere fantastico propriamente detta, potremmo prendere in esempio uno dei capisaldi del fantasy moderno, già citato in diversi articoli su queste stesse pagine: Il Signore degli Anelli. Innegabile che il tema del viaggio sia presente e importante in tutta l’opera. Sin dal principio, quando Gandalf “viandante” arriva alla Contea, per poi proseguire nel viaggio della Compagnia e in quello di Frodo e Sam. Anche Lo Hobbit, antefatto del lavoro più famoso di Tolkien, narra di viaggi. Ebbene, cos’è il viaggio ne Il Signore degli Anelli? In realtà molte cose. Prendendo a solo spunto il viaggio della Compagnia, s’individuano ragioni differenti in ognuno dei viandanti, nascoste dietro la minaccia dell’Anello e dell’Oscuro Signore: Gandalf cerca la conoscenza, e con essa il superamento dei propri limiti; Legolas viaggia per vedere finalmente Lothlorien e Gimli per Moria. Aragorn e Boromir per il dovere, sotto il peso della responsabilità, e infine gli Hobbit per la fuga dall’ordinario, per la pura ricerca dell’avventura.

Com’è ovvio, non tutti i “viaggi” vanno a buon fine. Gandalf riuscirà nel suo intento sconfiggendo il Balrog e divenendo bianco. Legolas vedrà con i suoi occhi Lothlorien, e forse anche Aragorn, nel suo ritornare come un re, raggiunge lo scopo. Ma gli altri? Gimli trova una civiltà distrutta, Boromir la morte, e gli Hobbit desidereranno di non aver mai lasciato la quiete e la monotonia della Contea.

Ancora, nel bene o nel male, il viaggio è sinonimo di cambiamento. Evidente per Gandalf e Boromir, certo, ma un po’ meno per gli altri. Non è forse diverso Frodo, nel ritornare finalmente a casa? Lasciando la Contea ha imparato ad apprezzarla. Lo stesso Sam, con l’espediente letterario dell’invitare la ragazza a ballare, si trova del tutto mutato.

E oggi?

Il viaggio è ancora topos della letteratura. Come ultimo esempio, porto un romanzo italiano del 2010 di Luca Tarenzi: Il Sentiero di Legno e Sangue. Caso importante per la trattazione, perché il libro stesso è un viaggio. Dunque ne Il Sentiero abbiamo due viaggi: uno fisico, letterario, che è quello del protagonista, l’altro figurato-didattico che è quello del lettore.

Certo, è stato usato in altre opere questa formula, dunque perché questo esempio? Per mostrare come un viaggio non debba avere per forza di cose un luogo di partenza e uno di arrivo. Il viaggio è ciò che sta in mezzo; Gilgamesh non sapeva dove andare, ma sapeva cosa cercare. Dante apprende da Virgilio che il viaggio lo porterà lungo i tre regni dell’oltretomba. Gulliver viaggia alla ricerca di sé stesso ed è forse il più ignaro di ciò che troverà, ma il lettore si aspetta ogni volta un naufragio. E Frodo, e la compagnia tutta, sa bene qual è la sua meta: il monte Fato, per distruggere l’Unico Anello.

Ne Il Sentiero di Legno e Sangue, né il protagonista, né il lettore, ha per scontato il punto d’arrivo. È un diverso tipo di viaggio, quello che ha se stesso come obiettivo, senza un punto di arrivo ben definito. Che abbia una conclusione è scontato, ma che il protagonista – e in un certo senso il lettore – ne venga a conoscenza quando ormai è a due passi, mette in nuova luce il concetto.

In conclusione, fra i topoi della letteratura – e in particolare quella fantastica – il viaggio è sempre allegoria di cambiamento. Che sia il protagonista a cambiare, il mondo in cui vive o il lettore, la cosa non ha importanza. Perché l’uomo ha da sempre viaggiato, lo fa tuttora, e sempre viaggerà.

Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti.

Italo CalvinoLe Città Invisibili


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