CARPENTER: UNA VOCE FUORI DAL CORO


A cura di Claudio Cordella

“Nulla potrebbe ucciderlo. Non ha nemici naturali, poiché diventa qualsiasi cosa voglia diventare. Se un’orca marina lo attaccasse, diventerebbe un’orca marina. Se fosse un albatross e un’aquila lo attaccasse, diventerebbe un’aquila”. JOHN W. CAMBPELL, Who Goes There?, 1938; traduzione italiana Chi va là?, in I figli dello spazio, a cura di BEN BOVA, ed. Nord, Milano 1990, p. 24.

John Carpenter.

Durante la sua pluridecennale carriera John Howard Carpenter (Carthage, 16 gennaio 1948) ha dimostrato di possedere un talento davvero poliedrico (essendo stato regista, sceneggiatore, compositore, produttore cinematografico, montatore e attore) ma sopratutto che per fare del buon cinema servano delle buone idee, piuttosto che effetti speciali mirabolanti e budget miliardari.

Nel corso degli anni i film di Carpenter sono sempre stati caratterizzati da una fotografia e da un’illuminazione di stampo minimalista, da macchine da presa statiche e colonne sonore realizzate al sintentizzatore, di norma composte dallo stesso regista. Paradossalmente si deve costatare come nella carriera di questo geniale autore sono state proprio le pellicole più costose, realizzate con l’aiuto di una grande casa di produzione, a risultare dei clamorosi fiaschi al botteghino.

Carpenter viene influenzato nel corso degli anni da registi classici dell’Età dell’Oro di Hollywood, come Howard Hawks (1896 – 1977) e Alfred Hitchcock (1899 – 1980), così pure da Stanley Kubrick (1928 – 1999) e dalla serie televisiva The Twilight Zone (Ai confini della realtà) di Rod Serling (1924 – 1975). Il nostro inizia sin da giovane a lavorare ad alcuni cortometraggi, come Revenge of the Colossal Beasts. Nel 1970, dopo essersi laureato alla University of Southern California realizza: The Resurrection of Broncho Billy, alla cui sceneggiatura collabora Nick Castle. Questo “corto” consente a Carpenter di vincere un premio, l’Academy Award for Best Live Action Short Film, nonché di far circolare il suo nome nell’ambito del cinema indipendente.

Dark Star.

Il primo lungometraggio di quest’autore è però un’opera del 1974: Dark Star, la cui sceneggiatura è scritta a quattro mani con Dan O’Bannon, in seguito regista dell’horror The Return of the Living Dead (Il ritorno dei morti viventi) e di Alien. In Dark Star tutte le tematiche legate alla fantascienza spaziale, i viaggi cosmici, le astronavi e gli alieni, vengono sistematicamente messe alla berlina, sbeffeggiate e stravolte. Dal punto di vista cinematografico complessivamente Dark Star risulta essere quasi una parodia del celeberrimo 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio) del ’68, lopera-cult di Kubrick. Laddove il Kubrick ci mostra uno straordinario affresco dell’evoluzione umana, controllata e programmata da benevoli quanto onnipotenti intelligenze extraterrestri, ma soprattutto eroici astronauti proiettati verso i confini dello spazio e della conoscenza, Carpenter fa tutto l’opposto. Gli astronauti di Dark Star sono pigri, svogliati, annoiati, tutt’altro che eroici o impegnati in una missione destinata a cambiare il nostro futuro: il loro unico compito, in qualità di demolitori cosmici, è quello di far esplodere qua e là per la galassia quei soli e quei pianeti che sono considerati un pericolo per la navigazione interstellare poichè instabili. Proprio per questo l’astronave su cui viaggiano, la Dark Star appunto, è dotata di autentiche super-armi in grado di disintegrare interi corpi astrali. L’unico alieno che appare in tutto il film, tenuto a bordo dagli astronauti come animale da compagnia, è una grottesca palla, una vescica ricolma di gas buona solo a combinare guai.

Dunque gli alieni super-evoluti di Kubrick diventano nel film di Carpenter poco più che delle buffe bestiole mentre la gloriosa missione dell’astronave Discovery di 2001: Odissea nello spazio si trasforma in una squallida, quanto distruttiva, routine lavorativa da operaio alienato. Oltrettutto se in 2001: Odissea nello spazio era il computer senziente Hal 9000 ad impazzire, iniziando sistematicamente a sterminare uno dopo l’altro i suoi colleghi umani, qui è una bomba intelligente, la Bomba N°20, la quale dimostra di avere un cosciente desiderio di farsi esplodere, a dimostrarsi fatale per l’equipaggio della Dark Star. Nonostante i ragionamenti filosofici addotti da uno degli astronauti, il tenente Doolittle, la Bomba N°20 decide ugualmente di farsi detonare; agendo in tal maniera essa non dimostra solo di voler portare a compimento lo scopo ultimo della stessa esistenza: quello di essere un arma di distruzione, ma pure la sua intima follia. Le ultime parole della testata, urlate poco prima della conflagrazione finale, ci fanno capire come la macchina tenda letteralmente a identificarsi con Dio: “In principio era il buio e io venni dopo il buio. E luce sia!”.

È bene precisare che il personaggio della Bomba N°20 rimandi non solo ad HAL 9000, ma anche alle tematiche di un altro noto film di Kubrik del ’64: Dr. Strangelove (Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba). Come ne Il dottor Stranamore anche nel film di Carpenter le armi di distruzioni di massa sono causa di follia, contraddizioni e delirio di onnipotenza.

Lo stesso oggetto-feticcio della fantascienza, l’astronave, appare in Dark Star come un luogo claustofrobico, sporco, un ammasso di metallo abitato da un gruppo di folli che non sanno più distinguere la realtà dalla fantasia, astronauti che continuano a parlare con il loro capitano, morto da tempo, o a interrogarsi sul campionato di baseball. Evidentemente O’Bannon, che in Dark Star partecipò anche come attore nel ruolo del  sergente Pinback, si servì della sua esperienza in questo film per il già citato Alien: in entrambi i film la visione dell’odissea cosmica, nonchè la stessa idea di astronauta, vengono demitizzate e private di un qualsivoglia alone di gloria.

Assault on Precinct 13 (Distretto 13: le brigate della morte).

Carpenter però non pare riposare sugli allori e nel ’76 cambia genere per dar vita a quello che potremmo definire una sorta di “western urbano”: Assault on Precinct 13 (Distretto 13: le brigate della morte), ispirato al western classico del ’59 Rio Bravo (Un dollaro d’onore) di Hawks con la star John Wyne (1907 – 1979). Girato in soli 20 giorni il film ci presenta un dramma tesissimo tra un gruppo di polizotti, baluardo della legge, dell’ordine e della civiltà, costretti a una lotta estenuante contro alcune iperviolente gang criminali che infestano il ghetto di Anderson della città di Los Angeles. Questi ultimi, con il loro culto del sangue, della violenza e della morte, rappresentano una stirpe di nuovi barbari, incapaci di riconoscere qualsiasi legge tranne che codici d’onore tribali, perfettamente in grado di infierire su innocenti del tutto inermi e di compiere qualsiasi efferatezza. Il pensiero a questo proposito corre subito ai giovani londinesi dediti al mito dell’ultra-violence (ultra-violenza) di A Clockwork Orange (Arancia meccanica), film di Kubrick del ’71 tratto dal romanzo omonimo del ’62 di Antony Burgess (1917 – 1993). Sia i giovani picchiatori, stupratori e assassini della banda dei Droog (Drughi) “kubrickiani” che i Tattoo e i Street Thunder (Tuono Verde) “carpenteriani” di Distretto 13 sono indubbiamente imparentati tra loro: entrambi proiezioni delle nostre paure più profonde. L’incubo di una violenza irrazionale, che non ha altro scopo se non la distruzione di per sé stessa, emerge in entrambe le pellicole, evidentemente frutto del medesime preoccupazioni per le sorti della nostra civiltà contemporanea.

Distretto 13, di cui Carpenter è il compositore della colonna sonora come del precedente Dark Star, pur essendo stato realizzato con un budget limitato venne ben presto considerato un piccolo gioiello del cinema contemporaneo.

Passano altri due anni e questa volta Carpenter, in collaborazione con Debra Hill (1950-2005), sceneggiatrice e produttrice, porta sugli schermi un vero e proprio horror-cult: Halloween (Halloween, la notte delle streghe). Il personaggio del serial-killer Michael Myers, interpretato dall’amico di gioventù del regista Nick Castle, dall’impescrutabile volto coperto da una maschera e apparentemente immortale, è ormai diventata un’icona del cinema dell’orrore.

Ispirato dai cineasti dell’horror nostrano Dario Argento e Mario Bava, anche per lo stesso tema musicale del film, Halloween è un successo commerciale che rende il notissimo tra gli amanti del genere, creando un modello che sarà imitato innumerevoli volte nel corso degli anni a venire. Lo stesso Carpenter e la Hill, in seguito divenuta sua moglie, non presero parte a tutti i sequel direttamente scaturiti da questa prima pellicola.

Presosi una pausa dal cinema Carpenter lavora a due film per la televisione: Someone’s Wathing Me! (Pericolo in agguato – Procedura ossessiva) incentrato su un caso di stalking ed Elvis (Elvis, il re del rock), film biografico basato sulla vita del leggendario cantante che gli consente di lavorare per la prima volta con l’attore Kurt Russel, diventato inseguito uno degli interpreti più amati da questo regista.

Il ritorno al grande schermo di Carpenter nel 1980 è ancora una volta un horror: The Fog (Fog), una cruenta storia di fantasmi in cerca di vendetta ambientata in una rivierasca cittadina californiana.

John Carpenter's Escape from L. A. (Fuga da Los Angeles).

L’anno dopo è il momento per un altro grande successo per il nostro, che abbandona momentamente l’horror per la sci-fi con lo stupefacente Escape from New York (1997: fuga da New York). L’anti-eroe Cobra Plissken (Jena Plissken), magistralmente interpretato da Kurt Russel, ottenne un tale successo da meritarsi un posto speciale nell’immaginario collettivo mondiale. (Stranalmente il nome del personaggio, Cobra nell’edizione originale, venne cambiato in Jena nel doppiaggio italiano; rendendo quindi del tutto incomprensibili i cobra tatuati sul corpo del protagonista, sulle braccia e sul ventre).

A Jena, soldato abilissimo ma al tempo stesso disertore e criminale condannato alla pena capitale, viene affidata una missione di vitale importanza in cambio della grazia: il presidente degli Stati Uniti, miracolosamente salvatosi dopo un dirottamento aereo messo in atto da alcuni terroristi, è atterrato nel bel mezzo di New York con una capsula di emergenza. Peccato che la megalopoli sia stata trasformata da alcuni anni in un solo e immenso carcere circondato da mura e sorvegliato da guardie armate 24 ore su 24. Dato che al suo interno i detenuti sono liberi di vivere come vogliono, New York è diventata un’autentica “giungla d’asfalto” e il presidente viene preso prigioniero proprio da questi “nuovi barbari”. Il compito di Jena è quello di liberare il capo di stato americano e di recuperare una cassetta contenente il discorso che il politico dovrebbe tenere a una conferenza di pace.

Come in Distretto 13 ritroviamo nuovamente la lotta tra barbarie e civiltà all’interno di uno scenario urbano degradato, con l’unica differenza che qui il protagonista, l’abilissimo Jena, è un feroce individualista che ama vivere seguendo solo il suo personalissimo codice d’onore. Nel finale del film ad esempio, per vendetta contro chi l’ha costretto a compiere una missione così rischiosa, Jena sostituisce la cassetta del discorso con una contente la canzone Everyone’s Coming to New York lasciando completamente senza parole lo stesso presidente, truccato e mandato in diretta TV subito dopo la sua liberazione. Nel cast di attori si segnalano non solo Kart Russel, che si fece un nome come star dei film d’azione dopo l’uscita di questa pellicola, ma anche il britannico Donald Pleasence (1919 – 1995), che aveva già lavorato con Carpenter in Halloween, che offre un ottimo ritratto del presidente USA: perennemente oscillante tra il patetico, quand’è in ostaggio dei suoi aguzzini, e la tipica arroganza dell’uomo di potere.

Indimenticabili le interpretazioni di due star hollywoodiane di prima grandezza come l’italo-americano Ernest Borgnine e Lee Van Cleef (1925 – 1989), il cui volto granitico ha fatto la storia del western: il primo nel ruolo di uno stralunato tassista newyorchese e il secondo per il commissario di polizia Bob Hauk, colui che per primo decide di ricorrere all’aiuto di Jena. Non a caso 1997: fuga da New York rimane ancor oggi il capolavoro “carpenteriano” per eccellenza: citato spessissimo nei romanzi e nei fumetti degli anni ’80 e ’90. Neuromancer (Neuromante) di William Gibson, romanzo caposaldo del cyberpunk, deve molto a questo film: dal carattere anarchico e individualista dei suoi protagonisti, alla presenza di gang criminali metropolitane, persino alcune trovate fanta-militari sono presenti in entrambe le opere, come l’idea di un attacco americano in territorio sovietico condotto a bordo di alianti.

Il nostro paese non solo ha sfornato alcuni “cloni” a basso costo del film di Carpenter ma l’ha pure omaggiato in alcune celebri collane a fumetti: l’investigatore del futuro Nathan Never, protagonista dell’omonima testata, in una delle sue prime avventure affronta una difficile missione che non è nient’altro che una puntuale citazione di 1997: fuga da New York. Leo Ortolani, creatore del personaggio umoristico di Rat-Man, bizzarro eroe mascherato pasticcione, ne ha invece allestito un’esilarante parodia.

Scena da The Thing (La Cosa).

Nel 1982 Carpenter porta nelle sale un film che è un abile mix di sci-fi e di horror: The Thing (La Cosa); un remake di The Thing from Another World (La cosa da un altro mondo) di Hawks, a sua volta tratto dalla novella del ’38 di John W. Campell, Who Goes There? (Chi va là?). Carpenter però è sotto molti punti di vista decisamente più fedele di Hawks al testo di Campbell, recuperando in particolar modo la natura claustrofobica e paranoica originariamente presente nella versione cartacea della storia. La lotta di un gruppo di scienziati, isolati nel bel mezzo dell’Antartico, contro un alieno mutaforma è l’occasione per il regista di allestire un dramma del “tutti contro tutti”, una caccia alle streghe dove chiunque può essere sospettato di essere il mostro. Nel ruolo del protagonista R. J. MacReady troviamo ancora una volta Kurt Russel, mentre la colonna sonora de La Cosa porta la firma di un maestro italiano della musica per il cinema: Ennio Morricone.

In seguito Carpenter lavora alla sceneggiatura di Halloween II (Halloween II: il signore della morte), sequel del suo Halloween, oltre che di Christine (Christine, la macchina infernale); film ispirato a un romanzo omonimo di Stephen King. Nel 1986, con un cambiamento di stile decisamente radicale rispetto ad ogni sua opera precedente, il nostro ritorna al cinema come regista con il fantascientifico Starman: storia di un alieno sperduto, “caduto sulla Terra”, magistralmente interpretato da Jeff Bridges. Il film all’epoca purtroppo si rivelò un fallimento, anche se guadagnò a Bridges una nomination come attore protagonista agli Oscar e di recente è stato decisamente rivalutato. Sempre nello stesso anno esce Big Trouble in Little China (Grosso guaio a Chinatown), purtroppo per il nostro rivelatosi anch’esso l’ennesimo flop al botteghino per il nostro. Il che è un vero peccato, qui siamo di fronte a un autentico gioellino: una sorta di urban fantasy che si diverte a citare il cinema orientale e la mitologia cinese, una simpatica presa in giro dei luoghi comuni dei film d’azione. Russel, riconfermatosi attore-feticcio di Carpenter, porta sullo schermo il personaggio di Jack Burton, camionista spaccone e simpatico, autentica caricatura dell’eroe made in USA.

Dopo quest’ennesimo fallimento Carpenter ha seri problemi a reperire dei finanziamenti e per continuare a fare film deve firmare un contratto con la casa cinematografica Universal: verranno così realizzati nel 1987 Prince of Darkness (Il signore del male), nel 1988 They Live (Essi vivono) e nel 1992 Memoirs of an Invisible Man (Avventure di un uomo invisibile). Il primo è un horror, d’impianto abbastanza tradizionale che vede Carpenter lavorare ancora una volta con Pleasence, il terzo una commediola per famiglie con il noto attore comico Chavy Chase. Decisamente più interessante è il secondo: Essi vivono, una storia paranoica di alieni mimetizzatisi tra gli umani e ben decisi a dominare il nostro mondo. Tutta la pellicola rappresenta la summa di una certa fantascienza paranoica, che in parte avevamo già visto ne La Cosa, qui supportata da un ben preciso messaggio etico-sociale: non solo la realtà così come la conosciamo è una finzione ma il capitalismo e i mass-media, in particolar modo la televisione, sono dei preziosi alleati degli alieni schiavisti. “Sono liberi imprenditori! La Terra è solo un’altro pianeta, il loro Terzo Mondo!”, afferma uno dei ribelli; uno dei pochi che si è opposto a un simile ingiusto ordine mondiale, ben accetto solo da parte di pochi privilegiati, alleatisi con gli invasori.

Una drammatica scena da They Live (Essi vivono).

Non ci sembra di esagerare dicendo che Essi vivono sarebbe stato sicuramente amato dallo scrittore Philip K. Dick (1928 – 1982), autore fantascientifico che ha spesso e volentieri descritto scenari simili nei suoi romanzi: mondi di alienazione e sfruttamento, universi nel quale è difficile stabilire che cosa sia reale. Il che non è poi così strano se si pensa che il racconto  del ’63 Eight O’Clock in the Morning, cioè l’opera che sta alla base del film di Carpenter, è nata dalla fertile fantasia di Ray Nelson, scrittore che ebbe modo di collaborare con lo stesso Dick. Purtroppo per il nostro anche queste ultime pellicole, realizzate sotto l’egida della Universal, non risultano essere dei grandi successi al botteghino.

Nel 1994 viene distribuito In the Mouth of Madness (Il seme della follia): considerato come il terzo capitolo di una “trilogia dell’Apocalisse” assieme a La Cosa e a Il signore del male, è un’autentico gioiello meta-cinematografico e meta-letterario, ricco di riflessioni sulla natura della finzione artistica, sul cinema e sulla letteratura. Il film, supportato dall’ottima interpretazione di Sam Neil, in gran parte è una sorta di miniera citazionista dell’opera dello scrittore del fanta-horror Howard Phillips Lovecraft (1890 – 1937), a partire dal titolo: In the Mounth of Madness (letteralmente Nelle fauci della follia), in cui riecheggia quello del romanzo “lovecraftiano” At the Mountains of Madness (Alle montagne della follia).

Molti altri elementi presenti nella trama, come la trovata di una topografia immaginaria, il ritorno di esseri non-umani da altre realtà e l’idea che la lettura di un libro possa far impazzire, sono tipicamente lovecraftiani. In buona sostanza Carpenter, con grande abilità bisogna riconoscere, affronta uno dei temi cardine della letteratura: quello del contagio tramite la lettura e la scrittura. Lo stesso Lovecraft nei suoi racconti presenta un libro immaginario, il Necronomicon, che contente non solo le indicazioni necessarie per riportare nel nostro mondo i mostruosi Old Ones (Grandi Antichi) ma così pure di far impazzire chi tenta di leggerlo.

Analogamente i romanzi dello scrittore dell’orrore Sutter Cane hanno il potere di far impazzire e di trasformare i suoi lettori in esseri abominevoli che non hanno più nulla di umano, nè nel comportamento, nè nell’aspetto.

In buona sostanza se in Essi vivono i giornali nascondevano messaggi subliminali e la televisione serviva ai “poteri forti”, per indebolire e schiavizzare le masse, qui è il romanzo inteso come best-sellers, destinato ad essere venduto in milioni di copie e a diventare un film, ad esserci presentato come un pericoloso vettore virale. Purtroppo, nonostante la complessità e la raffinatezza del suo film, Carpenter non riesce neanche questa volta a raccogliere il successo tanto atteso. Senza contare che la serie di fallimenti per il nostro prosegue con John Carpenter’s Village of the Damned (Il villaggio dei dannati), remake del ’95 del film del Village of the Damned (Il villaggio dei dannati) di Wolf Rilla del lontano 1960, a sua ispirato al romanzo del ’57 dello scrittore inglese John Wydham (1903 – 1969) Village of the Damned (I figli dell’invasione). La storia di un’invasione aliena, che inizia con la misteriosa nascita di bambini dotati di poteri paranormali e solo apparentemente umani, rappresenta un esempio di rara bruttezza, un polpettone fanta-horror che viene ricordato solo per un motivo: l’interpretazione dell’attore Christopher Reeve (1952 – 2004), l’ultima prima del grave incidente a cavallo che gli causò la paralisi. Altro fiasco solenne decisamente meritato, a parere di chi scrive un esempio di trash-movie di rara bruttezza, è il sequel di 1997: Fuga da New York, l’orrendo John Carpenter’s Escape from L. A. (Fuga da Los Angeles). Russel ritorna a vestire i panni dell’anti-eroe Jena ma da solo non basta a reggere una trama priva di originalità, che vive del rimpianto delle glorie passate del film precedente e che tenta di riscattarsi con qualche frecciatina indirizzata alla volta dell’estrema destra cristiana americana o al malcostume hollywoodiano. Segnaliamo qui il cameo, senza infamia e senza lode, dell’italiana Valeria Golino nel ruolo di una detenuta islamica, rinchiusa nella città-prigione di Los Angeles solo a causa della sua fede.

Vampires.

Evidentemente alla ricerca di un modo di risalire la china, il nostro lascia la sci-fi per ritornare nuovamente all’horror puro: così è la volta nel ’98 di Vampires, adrenalinica storia di cacciatori di vampiri e di “succhiasangue” in una desolata ambientazione western. Questa volta a Carpenter le cose non vanno male e nel 2002, per la regia di Tommy Lee Wallance, Vampires, beneficia persino avuto un sequel:  Vampires: Los Muertos (Il cacciatore delle tenebre). Il 2001 però porta con sé l’ennesima delusione per questo talentuoso, quanto sfortunato, regista: Ghosts of Mars (Fantasmi da Marte) va presto ad aggiungersi alla sua nutrita lista di fiaschi.

Nonostante qualche spunto interessante, come l’idea di un pianeta Marte dominato da un matriarcato o la tematica “lovecraftiana” degli spiriti degli antichi marziani che si impossessano dei coloni umani mutandoli, Fantasmi da Marte risulta essere semplicemente la trasposizione in chiave sci-fi di Distretto 13. Il mostrarci orde di minatori, posseduti da fantasmi alieni, trasformarsi nell’ennesima orda barbarica assettata di sangue non rende per questo tale pellicola nè particolarmente interessante, né originale.

Agli inizi del 21° secolo, nonostante i suoi alti e i bassi, il corpus cinematografico di Carpenter viene ormai annoverato tra i classici e questo regista, che come abbiamo avuto modo di vedere ammirava i registi del passato ed è stato artefice di remake e omaggi, viene a sua volta copiato, rielaborato e “aggiornato” con esiti diversi.  Se è il rocker e regista Rob Zombie (al secolo Robert Bartleh Cummings) a riprendere in mano la saga di Halloween, invece è il britannico Rupert Wainwright a lavorare al remake di Fog mentre il francese Jean-François Richet dà vita ad una nuova versione di Distretto 13.

Intanto Carpenter prima collabora alla serie televisiva Masters of Horror mentre vede arenarsi il progetto per il film Psycopath, che in teoria avrebbe dovuto uscire nel 2008. La sua ultima fatica per il grande schermo,  The Ward (Il reparto), è stata distribuita nel 2011 ed è un horror puro ambientato all’interno di un ospedale psichiatrico. In conclusione possiamo definire Carpenter come “una voce fuori dal coro”, autore originale ed eclettico che ha sempre seguito un suo personale percorso artistico, cercando di  andare anche al di là delle semplici logiche di mercato di Hollywood.


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