Harry Potter e i doni della morte, parte prima – Un’analisi.


di Francesco Finucci.

Comincia molto bene il tentativo di ricostruire, rifondare l’adattamento cinematografico della saga elaborata da J.K. Rowling, dopo il disastro del sesto episodio. Una fotografia eccellente pone subito gli spettatori nella giusta atmosfera, quando Scrimgeour (n.b ministro della magia dopo la cacciata di Caramell) ribadisce la propria radicata presenza nella lotta contro l’Oscuro Signore. L’ottima prova di Bill Nighy esprime nel migliore dei modi la mentalità del nuovo ministro.
Il discorso alla nazione sembra ispirarsi alle parole di Winston Churchill, agli albori della Seconda Guerra Mondiale, ma aggiunge una nota di decisa freddezza, una rigidità perfettamente resa dall’attore.

Non altrettanto all’altezza è il modo in cui viene reso l’allontanamento del protagonista, Harry Potter, dalla casa dei Dursley. Non solo Dudley viene reso in tono comico-demenziale, nell’unico momento in cui questo tono sparisce completamente nel personaggio, in sette libri della saga, ma anche l’ultimo sguardo che Harry Potter getta su quella che è stata casa sua per sedici anni non sembra rendere in maniera esaustiva la carica del momento.
L’introduzione è conclusa dall’ottima prova di Emma Watson, un abbandono perfettamente reso dalla recitazione dell’attrice, quanto dall’ottimo accompagnamento.

Inizia così a svolgersi la trama, subito dopo il preambolo, che costituisce in un certo senso la vera cesura con il mondo nel quale i personaggi si erano mossi fin dall’inizio. Abbandonata la propria casa e i propri familiari, in questo passaggio, un vero e proprio rito, i protagonisti si ritrovano ad essere definitivamente padroni del proprio agire.

Si passa così al maniero dei Malfoy, anche qui reso in maniera perfetta da un’ottima fotografia e dalla recitazione impeccabile degli interpreti della scena.
La traccia di Harry Potter svanirà tra pochi giorni, quindi Voldemort è intento ad elaborare una strategia.

Dopo aver ascoltato le informazioni contraddittorie dei mangiamorte, deciderà di prendere la bacchetta di Lucius Malfoy, caduto in disgrazia dopo aver fallito nella Sala delle Profezie, per aggirare l’ostacolo del Prior Incantatio, che si presenta ogni volta che le due bacchette gemelle si scontrano.

L’interpretazione degli attori, da Alan Rickman (Piton) a Ralph Fiennes (Vodelmort), a Helena Bonham Carter (Bellatrix Lestrange) a Jason Isaacs e Tom Felton (Lucius e Draco Malfoy), è magistrale, perfettamente fedele all’opera letteraria. In questa lista va, inoltre, aggiunta la figura di Carolyn Picklers, che nel ruolo di Charity Burbage, si fa “uccidere”, perché professoressa di Babbanologia a Hogwarts.
Sulla scia della potente immagine proposta dai mangiamorte, l’arrivo dell’Ordine della Fenice in casa Dursley risulta piuttosto convincente, anche se permane quel tono da festa, da telefilm, che dura per tutta la sequenza, con tanto di discorsetto di spiegazione da parte di Bill Wesley (atto a coprire le lacune del sesto film).

Il tono dell’incontro con l’Ordine della Fenice continua ad essere lo stesso di un party di “O.C”.
Lo spettatore, condizionato da quest’impostazione, perde tutta la potenza della scena, coadiuvato in questo dall’interpretazione poco convincenti degli attori presenti, specie nel momento della trasformazione tramite pozione polisucco.

La resa dei personaggi finisce così per smorzare la nicchia scavata per il discorso di Hagrid, di per sé molto toccante e potente.

Si tende per l’intero film a limare gli aspetti più potenti del libro, a renderlo un po’ più blockbuster.

Così succede al momento della partenza: Gli effetti atmosferici sono davvero coinvolgenti, ma il passaggio sull’autostrada (come il volo sul Tamigi del sesto episodio) sembra più che altro uno dei mezzi utilizzati per aggraziarsi il pubblico domenicale con qualche scena alla Trasformers.

Si perdono così la vera morte di Edvige, la presenza di Stan Picchetto e la modifica al motore di Hagrid.
Non meglio, poi, viene trattato il personaggio stesso di Hagrid: L’atterraggio nei pressi della Tana dovrebbe essere un momento ricco di pathos, e invece è uno dei tanti tagli emotivi del film (ad onor di cronaca molti meno che nel sesto episodio).

L’arrivo dell’Ordine è un po’ a metà, tra il pathos di J.R. Lupin e della signora Weasley e l’interpretazione non illuminante di Oliver Phelps (George Wesley).

Fantastico, invece, il battibecco tra Ron ed Hermione, uno delle tante, riuscite scene costruite sul rapporto tra i due.

Rimane, tuttavia, non ben gestita né la scena delle cure di George, né tanto meno l’annuncio della morte di Malocchio Moody (colpevole, in questo caso, anche una musica decisamente assente).

Calata la notte sulla Tana si susseguono due scene piuttosto importanti.

La prima è uno degli esperimenti meglio riusciti nella realizzazione di scene fuori dallo svolgimento temporale della trama, l’incubo di Harry riguardo alla propria missione, in cui assiste all’interrogatorio del venditore di bacchette, Olivander.

La seconda è invece il tentativo di fuga da parte del protagonista, che, stanco di vedere maghi morire al suo posto, decide di partire. Bloccato dall’amico, Ron Weasley, seguirà un dialogo sul significato del loro agire nella guerra contro i Mangiamorte.

La prova dei due attori non è eccellente, però, nell’esprimere il significato del momento, pur con l’intervento di un’ottima (e fedele) sceneggiatura, risulta efficace.

Nel momento in cui la potenza dell’opera comincia a decollare, però, lo spettatore è fulmineamente dirottato, in caduta libera, su una scena che ricorda tanto il famigerato sesto episodio.
Ginny che chiede ad Harry Potter di “chiuderle la zip” del vestito. Nulla di trascendentale, ovviamente, ma l’ennesima prova del tentativo di mortificare l’importanza e la portata di questo personaggio. Lo sguardo di George (o Fred?) al bacio dei due è assolutamente impagabile, ma non può rimediare all’intromissione forzata nella trama, allo scopo di, come detto, smussare gli angoli taglienti dell’opera.

L’opera di potatura continua al momento dell’arrivo di Scrimgeour, venuto a rivelare ai tre protagonisti il testamento di Albus Silente.
La scena è retta molto bene da tutti e quattro i personaggi, con qualche eccesso nel caricare l’ironia del dibattito sulle fiabe tra Ron, Hermione e Harry.
Passata l’assegnazione dell’eredità, iniziano i preparativi del matrimonio tra Bill e Fleur.

Viene qui introdotto il personaggio di Xenophilius Lovegood, degnamente interpretato, qui e più avanti, da Rhys Ifans, accanto alla figlia Luna Lovegood, decisamente aiutata da una sceneggiatura di maggior spessore.

Certo, resta davvero inspiegabile come Harry Potter non sia travestito tramite pozione polisucco, dato che è solo l’indesiderabile numero uno.
Il dettaglio (e che dettaglio), sparisce, però, di fronte all’interessante dialogo tra Elphias Doge e la prozia di Ron, Muriel, riguardo ad uno dei temi pilastro del settimo episodio, il passato e la vera identità di Albus Silente.

Nel mentre della festa, giunge il Patronus di Kingsley Shackebolt.
L’Annuncio della caduta del ministero lascia più di un punto interrogativo, ma conserva parte dell’effetto voluto, nonostante i Mangiamorte continuino ad agire come individui a sé stanti, più che come un gruppo ben organizzato, e sappiamo che una congrega di uomini è qualcosa di più della somma delle loro individualità.

Al loro arrivo, Harry, Ron e Hermione fuggono in una Londra affollata.
L’atmosfera originale è un’atmosfera alla Cuaron, molto simile alla prima apparizione del Gramo in Harry Potter e il prigioniero di Azkaban.

E’ una scena di forte tensione, di ansietà profonda, che, nel film, assume le fosche sembianze di una tranquilla giornata di shopping.

Il passaggio, per intenderci, è da “28 giorni dopo” a “Una mamma per amica”. Ricordiamo, quest’impostazione non assume quasi mai una connotazione dominante nell’economia emotiva dell’opera, ma permane di sottofondo, come nel successivo scontro tra i protagonisti e due mangiamorte, assolutamente rovinata dall’immagine della cameriera che ascolta la musica, incurante della vera e propria battaglia che si consuma nella sala accanto. Chiedersi il senso di questa scena, ancora una volta, risulterebbe una perdita di tempo (anzi, è decisamente consigliabile evitarlo).

Il tono, comunque, torna a salire al momento della cancellazione della memoria dei Mangiamorte, prima della fuga a Grimmauld Place.

Giunti a quello che era stato il quartier generale dell’Ordine della Fenice, l’importanza di questa location risalta subito, grazie alla scena del fantasma di Albus Silente.

Il trucco posto da Malocchio nel caso di una “visita indesiderata” da parte di Piton si rivela, in realtà, anche un trucco dell’autrice per mettere in evidenza il significato del quartier generale stesso:

Esso è un luogo della memoria, la casa di un’adolescenza sofferta per Sirius, la sostanza dei ricordi di Harry alla morte di Sirius, e il monito per le colpe di Severus Piton.
La permanenza a Grimmauld Place è una sequenza splendida. Estremamente potente, su tutto, un dettaglio che difficilmente si nota. Osservate bene il risveglio nella vecchia casa: Le mani di Ron e Hermione si sfiorano.

Dopo aver interrogato Kreacher e Mundungus, i tre protagonisti dovrebbero progettare l’introduzione nel Ministero, ma, naturalmente, l’economia del film non lo permette. Inutile dire che in questo modo si perde la complessità dell’introduzione stessa, ma questa potremmo anche lasciarla passare, una volta tanto.

Le parole di Ron sono le più esplicative di questo settore della trama: “Il mondo è folle”.

La scena della statua, rimodernata in “modello 1984”, mantiene la sua potenza, nonostante i tagli emotivi, soprattutto negli addetti al servizio di registrazione dei nati babbani, resi come tanti impiegati del comune, e non come coloro che decidono chi considerare umano, e chi no. Un po’ come prendere qualche decina di burocrati nazisti e metterli a fare comizi con Antonio La Trippa.

Una volta recuperato il vero medaglione, sostituito da Regulus Black anni prima, il problema è semplice: fuggire dal ministero.
Se non fosse che Hermione, travestita da Mafalda Hopkirk, si ritrova a giudicare una donna accusata di essere “mezzosangue”. Questa donna, a sua volta, è la moglie di Cattermole, i cui capelli sono alla base della pozione polisucco ingerita da Ron, che a sua volta deve eseguire una riparazione nell’ufficio di un Mangiamorte (per evitare che condanni “sua moglie”). In tutto questo, Harry Potter riveste le sembianze di uno dei tanti Mangiamorte infiltratisi nel Ministero.

Il risultato? Lotta e fuga, in pieno dinamismo, grazie ad una resa decisamente efficace degli attori, della fotografia e degli effetti speciali.

I tre, braccati dai Mangiamorte, sono costretti a rifugiarsi in una foresta.
L’immagine di Ron “spaccato” è molto ad effetto, e con essa l’interpretazione di tutti e tre i personaggi, decisamente di alto livello, come tutta la sequenza del viaggio, che segue l’allontanamento di Ron (assolutamente odioso, come nel libro).
Da sottolineare, in questo passaggio, la scelta di splendide locations e l’idea di utilizzare come trait d’union tra di esse le notizie che di volta in volta giungono dalla radio sullo svolgersi della guerra.

Un sottofondo del genere sostiene perfettamente la tristezza di quei giorni.

Non si possono non ricordare le parole di Luna “se sei da solo, Harry, non sei una grande minaccia”. Diabulus non viene dal greco diaballo, il cui significato è dividere?
Questo aspetto lega la figura di Voldemort (e i suoi Horcrux) con il tolkeniano Sauron (e il suo anello). Entrambi disgregano i legami tra gli esseri umani.
Non è anche un’idea fissa, il potere in cambio dei legami, degli antagonisti più straordinari del fantasy (Sauron, Voldemort), della fantascienza (il Merovingio) e degli anime (Orochimaru)?

La messa è finita, andate in pace.

Finalmente si giunge ad uno dei passaggi più straordinari della saga, un vero capolavoro della letteratura dei nostri tempi.
Harry ed Hermione decidono di recarsi a Godric’s Hollows.

La scena del cimitero è tra i più straordinari momenti della creazione rowlinghiana, un’incredibile fusione di sensi e tempi diversi.

Godric’s Hollows è assieme tutto ciò che è stato Silente, ma anche la genesi di Harry Potter. E’ il rito di passaggio di Voldemort verso la sua natura sub-umana. E’ il passato, il presente e il futuro, uno spazio atemporale. Ed è forse per questo che J.K. Rowling, forse ispirandosi al suo connazionale, T.S. Eliot, fa cadere la neve sulla lapide di Lily e James Potter, nella notte di Natale, che da sempre è una notte del ricordo, ma anche della rinascita e della speranza. Il riferimento, va sempre ricordato, è al sacrificio salvifico, a Cristo, per intenderci.

Nei pressi del cimitero, visitata la vecchia casa Potter (spariscono i messaggi di supporto a Harry, senza motivo), i due incontrano Bathilda Bath. Inizia uno dei passaggi più dark dell’opera, anche qui reso perfettamente da una fotografia potente e un’interpretazione all’altezza.

Bathilda porta i due in casa sua, per poi chiedere ad Harry di seguirla al piano superiore. Si rivelerà, subito dopo, un semplice involucro per Nagiri, lasciata a Godric’s Hollows nel caso Harry avesse deciso di tornare sul luogo.

Anche in questo caso lo scontro è reso in maniera esemplare.

Una volta fuggiti, Hermione e Harry si ritrovano nell’ennesima foresta, protetti da vari incantesimi di protezione. Ci ritroviamo ora al ritrovamento della spada di Gordic Grifondoro.

L’atmosfera del libro, commistione tra onirico e realistico, è resa in maniera impeccabile nel film, grazie ad una buona interpretazione di Rupert Grint e Daniel Radcliff.

L’apertura dell’Horcrux, poi, è il tocco finale, quasi la chiusura di un’anomalia, nel momento in cui Ron distrugge l’oggetto, frantumando le paure di una vita in secondo piano, e, non a caso, tornando da Hermione.

Da notare sotto questo aspetto, lo spegnino. Dice Ron, parlando di Silente:

“Sapeva che sarei potuto tornare con l’aiuto di Hermione”.

Nei momenti più bui, come spiega lo stesso Silente in “Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban”(anche se solo nel film), basta ricordarsi di accendere la luce.

Impagabile, infine, come Ron dia sempre ragione a Hermione, per porre rimedio al pasticcio combinato.

Una volta distrutto l’Horcrux del medaglione di Serpeverde, i tre decidono di rivolgersi a Xenophilius Lovegood, su suggerimento di Hermione, stranamente supportata da Ron, ma proprio per pura casualità.

L’incontro con un Lovegood stravolto dal rapimento della figlia è sorretto dalla bravura di Rhys Ifans, ma il taglio di alcuni particolari ne limita in parte l’efficacia.

L’obiettivo, stavolta, è scoprire il significato di un simbolo, il simbolo che unisce Silente a Grindelward, ma anche ad Ignotus Peverell. Il simbolo si rivelerà quello dei Doni della Morte, a cui si riferisce il nome del libro.

La narrazione della fiaba dei Tre Fratelli da parte di Hermione è un vero stravolgimento dell’immagine rowlinghiana, più vicina alla tecnica usata nella rappresentazione cinematografica della trilogia tolkeniana del “Signore degli Anelli”.
Stavolta, però, lo stravolgimento è un cambiamento estremamente ben riuscito, una fusione di esperienze diverse, più vicine alla tecnica degli anime (Devil May Cry) e del cinema di genere fantascientifico e del fantasy burtoniano.

I problemi iniziano a sorgere al momento dell’arrivo dei Mangiamorte (con cambiamenti alla trama incomprensibili), e soprattutto dei ghermidori.

La fuga da questi ultimi è chiaramente una brutta copia delle fughe twilightiane, e declassare dei maghi, anche se mezzi troll, come li definisce Ron, a personaggi di Twilight, è davvero un crimine imperdonabile.
Tempo un breve stacco (il potente dialogo tra Voldemort e Grindelward), e ci ritroviamo nel Maniero dei Malfoy, quasi in una struttura ad anello. I tre, catturati dai ghermidori, si ritrovano chiusi nelle segrete, ad eccezion fatta di Hermione, le cui urla giungono fino alle orecchie di Ron ed Harry.
La scena di Hermione torturata da Bellatrix Lestrange (interpretate in modo eccellente) è intollerabile e tetra, quindi perfettamente resa, anche se danneggiata dalla “non-morte” di Codaliscia, eliminando così il significato profondo di questa non proprio compianta dipartita.
La fuga è resa in maniera dignitosa, anche se in realtà basterebbe Dobby e il suo “Dobby non voleva uccidere, solo mutilare o ferire gravemente” a lasciare il piccolo potteriano che è in noi, decisamente soddisfatto e appagato.
La scena della sua morte è tra le più belle del film, ed è forse per questo che è stato deciso, come risarcimento morale, che fosse lui stesso a pronunciare le parole che nel libro Harry incide sulla sua lapide: “Dobby, ora, è un elfo libero”.

Chiude questa prima parte l’ennesimo tentativo di Voldemort di dimostrare la possibilità di combattere la morte col potere: Apre la tomba di Silente per rubare la Bacchetta di Sambuco.

Un uomo che tenta di oltrepassare l’umano con il potere, senza accorgersi che l’umanità l’ha persa da molto tempo.


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