Stephen King – Danse macabre – Terza parte


di Fabrizio Valenza.

Come dice la quarta di copertina, Danse macabre è un’opera “che è diventata un piccolo classico, un cult, nella quale un autore a sua volta di culto celebra l’horror definendone gli archetipi in una ridda in cui danzano, tenendosi per mano, letteratura e z-movies, leggende metropolitane e cinema d’autore, serie Tv, fumetti e perfino le figurine“.

Per completare il quadro di questo prezioso saggio di Stephen King, diamo un’occhiata ai capitoli rimanenti, non meno importanti di quelli già avvicinati. Iniziamo dal quarto.

Il capitolo quattro è una breve incursione dell’autore nella propria biografia. Con la modestia (e la simpatia) che dicevamo negli articoli precedenti la intitola Una seccante pausa biografica. Dedicata allo sport più diffuso tra i non e gli ex lettori di horror, ovvero il “Perché-scrivi-horror-hai-subito-qualche-trauma-da-bambino?”, questa pausa serve a ragionare sulle motivazioni che spingono a scrivere di questo genere e di come ci si arrivi. Una prima risposta: non attraverso traumi subiti nell’infanzia o a causa degli incubi che si fanno.

Sembra incredibile, eppure pensare a uno scrittore di horror come a uno scrittore in fondo un poco ammalato è un atteggiamento molto diffuso. Anche l’autore di questo articolo, che ha al suo attivo solo due racconti e un romanzo horror, si è sentito rifilare questa osservazione ben più di una volta. Grosso modo come la tesi che l’autore di narrativa fantasy sarebbe un sognatore a occhi aperti. A questo punto, allora, mettiamoci anche che il giallista è uno che sospetta di tutti, che il commediografo non è capace di prendere sul serio la vita e che l’autore di romanzi tragici, in realtà, è pronto a impugnare la pistola per spararsi un colpo in testa (lo so, sono romantico).

Stephen sgombra il campo e ripete ancora una volta, per chi non lo avesse già letto in una delle sue innumerevoli prefazioni, che la scrittura è frutto di esercizio.

Io credo che scrittori si diventi, non si nasce o si viene creati da sogni o traumi infantili; credo che diventare uno scrittore (o un pittore, attore, regista, ballerino e così via) sia un diretto risultato della volontà conscia. Certamente ci vuole il talento, ma il talento è merce di poco costo, meno del sale. Ciò che separa l’individuo di talento dall’individuo di talento e di successo è un sacco di duro lavoro e di studio; un costante processo di affilatura (pag. 100).

Nella pagina successiva dice:

Sto dicendo che, per avere successo, l’artista in ogni campo deve trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Quale sia il tempo giusto è nelle mani degli dèi, ma tutti i bambini, dopotutto, ancor prima di nascere trovano il posto dove stare, e aspettano.

Ma qual è il posto giusto? Questo è uno dei grandi, piacevoli misteri dell’esperienza umana (pag. 101).

Con queste parole King risponde alle domande di buona parte degli scrittori esordienti ed emergenti, Italiani e no. Assieme a “Perché-scrivi-horror-hai-subito-qualche-trauma-da-bambino?”, l’altro classico che continuo a sentirmi dire è che “Se-uno-ha-le-conoscenze-giuste-pubblica-ciò-che-vuole”, e i sostenitori di questa tesi danno implicitamente del fesso a tutti coloro che si arrovellano giorno dopo giorno sulla via del miglioramento del proprio stile.

Sì, bisogna conoscere “qualcuno” per far arrivare il manoscritto in “mani utili”. Ma questo qualcuno è spesso un contatto che chiunque riesce ad avere, e mani utili non vuol dire altro “qualcuno che sia in grado di giudicare la bontà e l’opportunità del testo per le politiche editoriali di quella Casa Editrice”. Nient’altro.

Esercizio e talento, perciò. Quanto a cosa sia il talento, non è molto semplice da dire. Più che definire il talento, King ci illustra come sia meglio soffermarsi sul “momento” in cui si scopre il proprio talento, perché in quel momento si capirà anche la direzione che esso prenderà.

Non è un caso che Stephen King abbia scritto soprattutto letteratura fantastica: fa parte di lui. Per dimostrarlo racconta un fatto autobiografico (relativamente al talento e alla sua direzione è decisamente utile rileggere la propria biografia, e non per psicanalizzarsi a favore degli altri). Lo scrittore fu abbandonato assieme alla madre e al fratello quando aveva due anni, però non ha dubbi nell’affermare che sia a suo padre che deve la particolare direzione del proprio talento.

Infatti, a undici anni la madre di Stephen stabilì la sua dimora nel Maine dopo aver viaggiato parecchio per avere la garanzia d’un lavoro, e il caso volle che non distante dalla loro nuova casa, ci fosse quella in cui vivevano gli zii.

Sopra il garage dei Flaws (la zia, n.d.a.) c’era una lunga soffitta fatta con assi rumorose e allentate e un incantevole odore di sottotetti. […] C’era una testimonianza di quando venivano tenuti gli animali nel granaio. Se ci si arrampicava fino al terzo solaio, si vedevano gli scheletri di diverse galline che sembravano morte lassù di qualche strana malattia. Era un pellegrinaggio che facevo spesso […] Ma la soffitta sopra il garage era una specie di museo famigliare. Tutti i Pillsbury avevano messo lì delle cose, dai mobili alle fotografie, e c’era appena posto per un bambino, a muoversi tra quegli stretti angoli. […]

Per me, in un freddo giorno d’autunno del 1959 o del 1960, la soffitta sopra il garage dei miei zii diventò il posto in cui la mia interiore bacchetta da rabdomante si svegliava, dove l’ago della bussola si dirigeva empaticamente verso un vero Nord mentale. Fu il giorno in cui trovai una scatola di libri di mio padre… tascabili della metà degli anni Quaranta (pagg. 109-110).

In buona sostanza, trovò una scatola piena di tascabili Avon, uno dei quali era una raccolta di racconti, con storie di Frank Belknap Long, Zelia Bishop e una serie di storie tratte da Weird Tales. Ma il vero tesoro era una raccolta di racconti di H. P. Lovecraft, l’autore horror americano che più ha esteso la sua ombra sulla successiva narrativa del terrore. Quella fu la sua occasione di scoprire in quale direzione virasse l’ago del suo talento, e da allora Stephen King non poté fare a meno di cimentarsi, giorno dopo giorno, nello sviluppo di quel talento, con tanto sano esercizio.

È necessario, dunque, tornare a parlare dell’esercizio come dell’unico vero fondamento dello scrittore di talento. Il talento può anche esserci, ma se manca l’esercizio sarà difficile arrivare da qualche parte. Il grosso problema quando si scrive horror (ma anche di altri generi) è la sospensione dell’incredulità. King dice che l’incredulità non è leggera, anzi, è molto pesante, e che ci vogliono braccia ben allenate per riuscire a sollevarla e tenerla in quella posizione. Questo perché tutti credono nell’esistenza di assassini, truffe, amori e crescite umane, ma pochi riescono ad ammettere l’esistenza di mostri, strane creature e situazioni extra-ordinarie.

Riporto un bellissimo brano, che sarebbe da far leggere ogniqualvolta c’è qualcuno che afferma di non potere mai leggere fantasy. È tratto da pagina 115 del saggio.

Quando incontro qualcuno che dice: “Non leggo fantasy né vado a vedere quei film, non c’è niente di vero”, sento una certa simpatia. Non riescono a sollevare il peso della fantasia. I muscoli della loro immaginazione sono troppo deboli.

(continua…)


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