Fenomeno HARRY POTTER


di Francesco Finucci

Il sottile limite tra ciò che è giusto e ciò che è facile

Quando si tratta di un fenomeno come quello generato dalla saga di Harry Potter, il problema parte dal verbo. Descrivere? No. Un fenomeno del genere trascende la descrizione, perché il sentire sfugge inesorabilmente alla logica ed alla sua analisi. Interpretare? Aprirebbe prospettive interessanti, ma forse si rischierebbe di scivolare nel soggettivo. La questione che si presenta è generata dalla necessità di raccontare quel mondo invisibile dietro alla parola Arte: l’Emozione.

Allora, forse, dovremmo ripartire dalle parole, per arrivare al significato. Non inizieremo, infatti, parlando dei libri scritti su Harry Potter, né delle tesi redatte a tal proposito, né delle lingue in cui è stato tradotto, o delle copie che ha venduto. Inizieremo con le parole di Albus Silente, preside di Hogwarts:

“Non avere pietà della morte, Harry. Abbi pietà di coloro che vivono e,soprattutto, di coloro che vivono senza amore.”

Dalle parole al significato, e attorno a questo significato prende vita la storia di cui vogliamo parlare. La storia dell’uomo, nella sua grandezza, come nel quotidiano scorrere del tempo, fino alla sua più totale abiezione.

Una storia che si rivela nella dinamica della fitta trama ideata dalla Rowling, una grandiosa dialettica tra bene e male, in cui guadagnare la propria salvezza significa principalmente mantenere i propri legami, esistere oltre la propria individualità o, come Isaac Asimov fa dire ad uno dei suoi personaggi più straordinari:

“identificare se stessi in quella mistica generalizzazione a cui ci riferiamo con il termine di “uomo””.

In questo senso la struttura di Harry Potter si configura come una struttura ad anello, una straordinaria nemesi storica che si muove sull’eterno conflitto Amore-Odio, in cui a risultare sconfitto non è un esercito impreparato, né un plotone mal equipaggiato. Lo sconfitto è uno sconfitto da se stesso, incapace di comprendere il significato profondo e innato che gli esseri umani riconoscono alla speranza. Voldemort, i mangiamorte, non subiscono la sorte avversa, ma l’effetto collaterale di una damnatio memoriae da essi stessi imposta sulla loro identità. Tom Riddle non esiste, non se ne può parlare, è un’ombra tra gli uomini, il solo nome di Colui-che-non-deve-essere-nominato deve incutere timore. Ora invece provoca il più profondo disprezzo, in modo analogo all’Ozymandias di Percy Bysshe Shelley, il cui sguardo imperioso permane sulle rovine della propria statua, irrimediabilmente perdute nel deserto.

In questo senso il personaggio di Voldemort non si configura come il classico antieroe, tra spirito e demone. Risponde invece alle dinamiche psicologiche di un male concreto e storicamente credibile. E questo non solo in merito all’ossessione per la purezza della razza (caratteristica il cui parallelismo con la figura di Adolf Hitler è stato criticato più volte), né per l’assassinio indiscriminato e senza rimorso, quanto per la volontà di affermare la propria esistenza nel mondo, che diviene volontà di dominio. In questo il parallelismo con i grandi dittatori del XX secolo appare evidente, e sottolinea la rivoluzione che J.K. Rowling ha portato nel genere Fantasy: la fusione di mondi reali e fittizi (Mai riuscita a mostri sacri quali C.S Lewis e J.R.R. Tolkien), che poi si concretizza in una facile interscambiabilità di personaggi e mondi, per cui non sarebbe poi così difficile immaginare un Voldemort armato di pistola, invece che di bacchetta, né il vederlo perseguitare una qualsiasi delle minoranze etniche che popolano la nostra realtà, invece dei babbani.

Né meno credibile si può dire il personaggio focale di questa storia, Harry Potter, che, non a caso, diviene il punto di contatto tra due mondi così differenti. La straordinaria complessità di quest’opera traspare nel protagonista, nel quale coesistono il magico e il quotidiano, ma anche  la grandezza di chi scrive la storia e la normalità di un individuo che approda nel mondo degli adulti.

Da una parte, infatti, vi è l’universalità del sacrificio salvifico capace di porre rimedio al male degli uomini, la potenza del messaggio cristiano che Harry Potter condivide con il Neo di Matrix.

Dall’altra permangono le problematiche dell’esistenza giornaliera, capaci di mantenere l’opera su un piano decodificabile, senza perdersi nell’atemporalità caratteristica di  fiabe e miti. Tutto questo, inoltre, senza mai scadere in languidi sentimentalismi, né in qualsivoglia isterismo adolescentista.

Questo realismo si concretizza, in effetti, nei protagonisti, i quali non sono delle urne vuote riempite dalle esperienze, ma padroni del proprio destino. Esemplare il caso di Harry Potter, nel momento in cui, indossando il cappello parlante chiede di non essere smistato nella casa Serpeverde.

Sono le parole, ancora una volta di Albus Silente, a sottolinearlo, quando asserisce come:

“Sono le scelte che facciamo che dimostrano quel che siamo veramente, molto più delle nostre capacità”.

In ognuno degli individui che si muovono in questo mondo tra realismo e fantasy, risiede quel δαιμων, quel “demone” platonico che si inscrive nell’agire degli uomini come volontà trascendente che fonde anima, sorte e divino.

I personaggi della Rowling non sono semplici macchine messe in moto dal caso, sono esseri viventi nel più pieno senso del termine, la cui volontà non solo piega, ma è parte integrante degli eventi. Basti pensare ad un passo della profezia con cui Sibilla Cooman segna il destino del protagonista:

“Ecco giungere il solo col potere di sconfiggere l’Oscuro Signore…

nato da chi lo ha tre volte sfidato, nato sull’estinguersi del settimo mese…

l’Oscuro Signore lo designerà come suo eguale, ma egli avrà un potere a lui sconosciuto…

e l’uno dovrà morire per mano dell’altro, perché nessuno dei due può vivere se l’altro sopravvive… il solo col potere di sconfiggere l’Oscuro Signore nascerà all’estinguersi del settimo mese…”

Non solo Voldemort è causa della propria sorte, per aver designato Harry Potter “come suo eguale”, come afferma Silente (“Voldemort stesso ha creato il suo peggior nemico, come fanno ovunque i tiranni! Hai idea di quanto i tiranni temano coloro che opprimono? Sanno benissimo che un giorno tra quelle molte vittime ce ne sarà certamente una che si leverà contro di loro e reagirà!”) ma permane vivo e potente il mondo attorno alla profezia, quello in cui Lily Potter sacrifica la sua vita per il proprio figlio, a ribadire come un grande gesto non sia mai inutile, ma anzi:

“Essere stati amati tanto profondamente ci protegge per sempre, anche quando la persona che ci ha amato non c’è più. È una cosa che ci resta dentro, nella pelle.”

Ancora una volta quindi, si afferma potentemente la grande lezione, che la Rowling ha saputo accogliere dalla filosofia, per cui il problema di fondo non è vivere per sempre, quanto dare un significato alla propria esistenza, guardare al tempo non come ad un mezzo per guarire la propria mortalità, quanto la propria apparizione nel mondo, tanto preziosa proprio perché limitata. Per questo motivo essere padroni della morte non significa sconfiggerla. Ancora una volta sono illuminanti le parole di Albus Silente, quando dice ad Harry Potter:

“Tu sei il vero padrone della Morte, perché il vero padrone non cerca di sfuggirle. Accetta di dover morire e comprende che vi sono cose assai peggiori nel mondo dei vivi che morire.”

Come l’Heidegger di Essere e Tempo (n.b. Martin Heidegger, filosofo tedesco contemporaneo), J.K.Rowling sottolinea l’importanza della coscienza del proprio limite in virtù non di una svalutazione dell’esistenza, ma al contrario della capacità di realizzarsi nell’attimo, nella scelta, nel senso. In virtù di quello che Heidegger chiama proprio Essere-per-la-morte. La più importante condizione di esistenza dell’uomo diviene quindi la sua antitesi, la morte. Essere significa innanzitutto che un giorno non saremo più. J.K. Rowling (come Heidegger) rivela in questo caso come la paura ancestrale dell’uomo sia in realtà la chiave di volta per interpretare il proprio essere nel mondo.

E’ l’incapacità di comprendere questo che fa di Voldemort la mimesi, la controparte di coloro che nella storia hanno dato un senso solo al potere, caratteristica che, non a caso, risulta trasversale a molti antieroi del fantasy e della fantascienza, da Voldemort a Darth Vader, da Sauron all’Agente Smith. Indicativo in tal senso un confronto tra le parole di Voldemort e quelle del Merovingio di Matrix. Se l’uno afferma che:

“Non esiste bene e male… esiste solo il potere e chi è troppo debole per usarlo!”

Per l’altro:

“La scelta è solo un’illusione creata e posta tra chi ha potere… e chi non ne ha.”

In virtù di questa visione dell’esistenza, in effetti, la strada di Harry Potter e quella di Voldemort (come quella di Silente e Grindelward) si allontanano quando, orfani e isolati, l’uno sceglie la strada dell’affermazione, l’altro quella del dominio. Di più, Voldemort arriva a dilaniare la propria anima tramite la creazione di sette Horcrux: di nuovo, l’uno uccide per vivere, l’altro sceglie la morte pur di salvare coloro che ama. Così -ironia tragica, senza dubbio- Harry Potter, colpito dall’anatema che uccide, vede la propria vita continuare, mentre Voldemort nell’assassinio trova la propria riduzione a fantasma tra gli uomini.

La trasfigurazione di Voldemort appare, quindi, innanzitutto trasfigurazione morale, l’abbrutimento che fa del corpo un contenitore senza contenuto, disanimato, la cui mancanza di identità etica finisce per divenire una perdita di identità fisica, con la progressiva scomparsa di tratti fisici riconoscibili. Come l’Orochimaru di Naruto, Voldemort esiste per volontà di continuare la propria esistenza, a danno della propria umanità. Non a caso, in effetti, le figure che più si avvicinano a quella di Tom Riddle sono proprio i dissennatori, coloro che traggono la loro sussistenza dal sottrarre agli altri la propria felicità.

I dissennatori, come Voldemort, non comprendono la potenza insita nel cuore umano, come spiega così bene Marcus Wright in Terminator salvation, quando dice:

“…che cos’è che ci rende umani….qualcosa che non si può programmare….che non si può mettere in un chip….è la forza del cuore umano ….la differenza ….tra noi e le macchine”.

Tuttavia, se si riducesse la riflessione Rowlinghiana a questo, si finirebbe per ridurre il significato dell’opera in questione ad una manicheistica, rigida lotta tra buoni e cattivi, dove i buoni vincono perché buoni, e i cattivi cadono perché cattivi. Sono invece i dissennatori stessi che permettono di comprendere la seconda lezione del significato insito in Harry Potter, complementare e fondamentale per comprendere la prima. I dissennatori vivono della disperazione degli uomini, ma il loro bacio, il bacio della disperazione, rende gli uomini stessi, loro simili. L’uomo, quindi, non è solo vittima del male, ma carnefice qualora non si frapponga tra esso e gli indifesi.

Carnefice è, infatti, Piton, che paga il proprio disprezzo con l’uccisione di Lily Potter, dalla quale sarà ossessionato fino all’ultimo respiro. Carnefice è Codaliscia, ucciso dalla propria sottomissione al male, proprio quando aveva dimostrato di saper provare compassione. Carnefice è Regulus Black, che si unisce a Voldemort per dare ascolto alla follia della madre.

Tuttavia, ed è questa, forse, di tutte, la più straordinaria rivelazione di cui è capace J.K. Rowling, l’umanità non può essere uccisa in nessun uomo.

Non può in Codaliscia, che, nelle segrete del maniero dei Malfoy, lottando contro il nemico del proprio padrone, ne prova, per un solo attimo, compassione.

Non può Regulus Black che ruba il primo degli Horcrux e per questo viene ucciso, nell’assordante silenzio del mondo magico, sempre ricordato come un vile, un ingenuo, un mangiamorte, senza mai, però, perdere la propria libertà.

Non può, infine, Severus Piton, che, come in un contrappasso dantesco, per difendere il figlio della persona che amava, è costretto a difendere il figlio dell’uomo che odiava. Perché Piton, differentemente da Voldemort, può qualcosa di grande, che Riddle ignora.
Può l’unico sentimento tanto potente da curare le crepe di un’anima lacerata dagli Horcrux: Il rimorso.

Riesce, quindi, ad uscire da quelle tenebre dietro agli occhi, quei “due tunnel immersi nel buio” di cui parla Harry quando lo vede per la prima volta. Sono vivi, i suoi occhi, quando osserva, per l’ultima volta, quelli di Harry, quelli di Lily:

“ “Guar… da… mi” sussurrò. Gli occhi verdi incontrarono i neri, ma dopo un attimo qualcosa nel profondo di questi ultimi svanì, lasciandoli fissi e vuoti.”

La luce, in J.K. Rowling, diviene lo spazio dell’anima, come accade per i robot di Isaac Asimov, quando il suo personaggio, Alfred Lanning domanda:

Cosa succede nel cervello di un robot quando smette di essere utile? Perché quando alcuni Robot sono lasciati al buio cercano la luce?”

La luce, in Asimov come nella Rowling, appare come fenomeno della ricerca di significato, fondamento della coscienza umana, il “Fiat lux” che si oppone alla divisione diabolica, all’odio che essa genera tra gli uomini.

E’ la luce dell’esistere come esseri umani uniti dallo stesso sentire che, forse, può essere assunta a citazione di chiusura, quella che meglio evoca lo straordinario mondo che J.K. Rowling sa animare. A questo proposito, appare doveroso eleggere a simbolo di questo significato l’excipit di Harry Potter e il principe mezzosangue:

“Le sue mani si chiusero meccanicamente attorno al falso Horcrux, ma nonostante tutto, nonostante il sentiero buio e tortuoso che vedeva dipanarsi davanti a lui, nonostante l’incontro finale con Voldemort dovesse avvenire di lì a un mese, un anno, o dieci, si sentì il cuore leggero all’idea che restava ancora un ultimo giorno dorato di pace da assaporare con Ron e Hermione”.


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