HARRY POTTER E I DONI DELLA MORTE, PARTE PRIMA


Inizio della fine doveva essere e inizio della fine è stato. Paradossalmente l’ultimo film della serie è il meno “potteriano” di tutti. Abbandonata l’atmosfera gotica e retrò, romanticamente dark, dei capitoli precedenti, la vicenda si sposta su ambientazioni meno decadenti, irregolari e terra-terra. Foreste grigie e inospitali, strade malfamate e case diroccate. La parola chiave è “sporco”.

Sporche le ambientazioni. Il mondo dei maghi si è trasformato, siamo in guerra ora. Ci troviamo lontani ben più di sette anni dalle mirabolanti panoramiche attorno al castello magico di Hogwarts, sulle tavole imbandite a festa della sala grande e dagli scintillanti incantesimi delle lezioni di magia, luoghi e momenti rassicuranti, al riparo dal male che aleggia fuori dalle mura. Ora Harry si trova nel mondo esterno, nell’occhio del ciclone di una battaglia epocale, dove non ci sono sconti per nessuno e un incantesimo può essere fatale per chiunque.

Sporchi i protagonisti. Harry non è semplicemente cresciuto, è invecchiato. In alcune inquadrature sembra addirittura un trentenne. La sofferenza per la perdita del suo mentore Silente (nel capitolo precedente) e del padrino Sirius (in quello prima ancora), gli scontri all’ultimo sangue con gli inarrestabili Mangiamorte, il legame tormentato e ossessivo che lega Harry a Voldemort e la paura verso un destino così ingiusto hanno segnato i tratti gentili di quel bimbetto dagli occhi di smeraldo che ammirava a bocca aperta le meravigliose vetrine di Diagon Alley, trasformandolo in un uomo in perenne lotta con il desiderio di una vita tranquilla e il coraggio di mettersi in prima linea per difendere chi vorrebbe ne facesse parte.

La guerra subdola – ma neanche tanto – si abbatte ora su maghi e babbani, infligge perdite dolorose a tutti i protagonisti e costringe i nostri eroi alla fuga. Nell’oscurità fangosa del terrore Harry, Hermione e Ron rinsaldano il loro legame quasi fraterno, che resiste nonostante una rottura momentanea dovuta più alla stanchezza e alla paura che a un reale vacillamento dei sentimenti che lega il nostro amato trio.

Sporca la regia, fatta di inquadrature sempre traballanti, dettagli sfuggenti e movimenti imperfetti. La camera racconta l’azione con destrezza ma senza pulizia e fluidità, le scene più movimentate – perfino quelle strabordanti di effetti speciali – sono travolgenti nel senso pragmatico del termine, l’occhio dello spettatore viene sbatacchiato e ribaltato senza cura, complice un montaggio serrato ma impeccabile nel rimanere ben incollato sull’azione, sui volti dei protagonisti, sui dettagli.

Sporca la sceneggiatura, con scene che si susseguono a ritmo sempre più incalzante e irregolare, i momenti di pace sono pochi e sfuggevoli, la corsa alla ricerca degli Horcrux e la loro distruzione si fa serrata e senza mezzi termini, tutto viene messo in gioco, il rispetto in primis. Non c’è più tempo per imparare, o insegnare allo spettatore come funzionano le cose, si può solo agire con i mezzi che abbiamo appreso fino a questo punto.

David Yates non si è risparmiato, aiutato dalla spaccatura dell’adattamento dell’ultimo volume in due capitoli, riesce a portare sullo schermo tutto il libro, con una fedeltà quasi maniacale. Le poche differenze dalle pagine della Rowling sono in meglio (tagliato il travestimento di Harry al matrimonio di Fleur e Bill e molto più eroico il sacrificio di Edvige). Se ce ne sono molte altre, non le ho notate (il corno di Erumpent? La scena funziona anche senza) e questo non può essere certo un male. In secondo piano, quasi sullo sfondo, la minuziosa ricostruzione che J.K.Rowling fa del passato di Silente, che nel settimo libro occupa parecchie pagine ed è disseminata per tutto il volume. Troppo letterale per essere portata sullo schermo. Silente è morto, il suo passato è legna da ardere per bruciare il male e costruire con le ceneri un futuro migliore per i vivi.

Degna di nota e di lode la ricostruzione della fiaba dei “Tre Fratelli” di Beda il Bardo. Una emozionante scena in animazione 3D che emerge dall’ombra, ritaglia lo schermo come se emergesse dalle pagine attraverso illustrazioni in movimento. Un po’ bartoniana e un po’ disneyana, racconta la storia dei Doni della Morte in modo chiaro e visivamente accattivante.

Le oltre due ore (146 minuti, per l’esattezza) scorrono in fretta e ho costantemente temuto l’ineluttabile cesoia che ha separato una storia scritta come unicum in due pellicole separate da quasi 8 mesi l’una dall’altra. Alla fine però arriva, ed è meno traumatico di come pensassi. La soddisfazione per aver goduto del fedele adattamento, di una visione così realistica del mondo magico inventato dalla Rowling è tale da compensare l’amarezza per l’attesa che mi aspetta(aggiungiamo che io so come va a finire, ho letto il romanzo almeno 4 o 5 volte).

L’anello finale di una catena deve reggere il peso di quelli precedenti e anche far sì che tutti gli altri restino legati e formino nella loro interezza un gioiello unico e prezioso. La serie di Harry Potter ha rappresentato tutto ciò prima nella letteratura fantastica, dove le saghe in più volumi non rappresentano certo una novità e, nonostante questo presupposto, è riuscita a ritagliarsi uno spazio e creare un fenomeno unico nel suo genere. Al cinema, la serie di film del maghetto con la cicatrice, ha dato vita a un evento di proporzioni mastodontiche, un’opera macroscopica rivoluzionaria, dove il successo di una pellicola dava per certa la successiva, a tal punto che pur di non dare l’ultimo addio troppo in fretta a questo mondo si è scelto di portare nelle sale non un film, ma ben due. Una generazione ci è cresciuta, grandi e più grandi si sono appassionati ed emozionati con questa storia di magia, sentimento e azione. Che altro aggiungere se non il commento di uno spettatore esploso nel silenzio della sala al momento della riaccensione delle luci? “Li Mortacci!”. Sì… li mortacci.

Fabio Cicolani


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